Raccontare l'endometriosi: la parola a Tea Ranno | Libri Mondadori

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Avevo un fuoco dentro: ecco perché Tea Ranno ha deciso di scrivere della sua endometriosi

«Scrivi, signora. Racconta che non t’hanno mai creduta, che t’hanno sbagliato tante volte la diagnosi, che t’hanno dato farmaci sbagliati, che t’hanno quasi uccisa.»

Il “no” mi scoppia nel cervello, ma lo lascio lì. Le dico: «Magari tra qualche tempo». Lavinia chiude la finestra, si gratta la gola, fissa la città fuori dai vetri.
«Ce l’hai il diritto di scordarti tutto, di buttarti alla spalle quello che è successo… Però» torna a me con lo sguardo «più forte di quel diritto è il dovere di raccontarla, questa malattia. Io e le altre, quando ne parliamo, usiamo termini talmente abusati che lasciano indifferenti. Tu parli del cane dai denti aguzzi, del magma nelle viscere, delle bocche di fuoco, e sei credibile… Quello che voglio dire è che tu hai lo strumento, capisci? Lo strumento per comunicare adeguatamente, anzi, lo strumento per far sentire come questa malattia ti tormenta la vita e la fa indegna…».

Il “No!” mi è scoppiato nel cervello per anni. Per anni, ogni volta che qualcuno mi diceva: “Racconta la malattia” l’istinto è stato quello di scappare: dal dolore, dal sangue, dal cane tormentoso che mi mangiava le viscere, dal fuoco che pulsava e ardeva e non mi dava pace: scappa, dimentica, rimuovi tutto! Ma non mi riusciva. Dentro di me, infatti, premeva quell’altra urgenza: “Scrivi! Permetti alle donne che soffrono di mal di pancia cronico – che hanno il ciclo doloroso e non sono credute manco dalle madri, dalle sorelle o dalle amiche – di capire che quel mal di pancia non sempre è normale, che potrebbe non trattarsi di semplice dismennorea, che non hanno la soglia del dolore troppo bassa, la tendenza a drammatizzare. Permetti a quelle che si riconoscerebbero nei tuoi sintomi di non accontentarsi di diagnosi sommarie, di indagare, di intervenire in tempo per garantirsi una migliore qualità della vita, ma anche – soprattutto – la fertilità”.

«L’endometriosi è una brutta bestia» mi si è detto per anni, «è la sua malattia. Tanto fumo e niente arrosto». Tanto fumo e molto arrosto, invece: dolore dolore dolore e l’esortazione a sopportare. «Prenda un antidolorifico e via».
Ho ubbidito: del resto, sopportavo da una vita... Quella volta, però, la situazione si era fatta gravissima: nel tempo della sopportazione, infatti, mi erano marcite le tube, il pus era risalito al fegato e ai polmoni e avevo tutti gli organi a mollo nel pus (mi è stato poi detto). Sono stata operata di notte, d’urgenza a Siracusa, dove mi trovavo in vacanza, mi hanno ripresa per i capelli: peritonite acuta purulenta pronta a virare in setticemia, mi restava un’ora di vita. Dunque?

Dunque, dopo dieci anni – tanto c’è voluto per riaffrontare la brutta bestia –, ho cominciato a scriverne. Non è stato facile. I ricordi hanno riattivato il dolore fisico, hanno risvegliato il senso di impotenza, la mortificazione del non essere creduta, le minimizzazioni dei medici, le pacche sulla spalla e l’esortazione a non fare troppe storie. Ho scritto di getto quando la rabbia è stata forte; mi sono fermata per settimane – quando mi sembrava di perdere il senso di quello che stavo facendo;
ho lavorato sui diari di quegli anni – che mi hanno restituito le emozioni di allora; ho sfrondato molto, lasciando quello che mi è sembrato essenziale e così, pagina dopo pagina, capitolo dopo capitolo, è nata la storia di un dolore che non si può dire… ma si può scrivere.

Tea Ranno

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