L’influenza aviaria, una minaccia silente

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Negli ultimi mesi, in seguito ad alcuni casi di contagio in vacche da latte negli Stati Uniti, si è tornato a parlare di influenza aviaria. Ne abbiamo discusso con un allevatore di oche e con l’istituto che in Italia segue questo tema

Michele Littamé e le sue oche – Foto di Matteo Mingardo

A Sant’Urbano, in provincia di Padova, Michele Littamé alleva oche e anatre: «Ma siamo specializzati nelle prime» precisa, e lo testimonia il fatto di essere uno dei produttori del Presidio Slow Food dell’oca in onto, un metodo tradizionale di conservazione delle carni nell’onto, cioè nel grasso. Michele, insieme al fratello Luca, rappresenta l’ultima generazione di una famiglia di allevatori ma, anziché i bovini come papà Ugolino e mamma Bruna, dopo gli anni dello scandalo della mucca pazza ha preferito orientarsi sulle oche romagnole. «Il nostro è un allevamento rurale – spiega – dove gli animali hanno spazio per pascolare e un luogo per ripararsi dal maltempo, anche se quando piove si divertono». Ogni anno, Michele alleva circa novemila oche, ma lo scorso novembre si è improvvisamente trovato senza più animali. «Nel mio paese sono stati registrati tre focolai di influenza aviaria e così sono partiti gli abbattimenti preventivi – racconta –: ho perso quattromila animali in poche ore, tremila oche e mille anatre, anche se nella mia azienda non c’era alcun animale positivo al virus». 

L’influenza aviaria, l’origine è nei selvatici

Le regole, d’altronde, sono chiare: per contrastare il diffondersi dell’influenza aviaria, una malattia virale che colpisce prevalentemente gli uccelli selvatici ma altamente letale per polli, anatre, tacchini e gli altri animali da cortile, le norme sanitarie prevedono l’istituzione di una zona di protezione di raggio minimo pari a 3 chilometri intorno al focolaio e una più ampia (di almeno 10 chilometri) zona di sorveglianza. A seconda delle situazioni, le autorità possono ordinare l’abbattimento preventivo anche di animali non risultati positivi ai test. «Trovandomi in una zona ad alta densità di allevamenti avicoli, il rischio che queste cose succedano c’è» prosegue Littamé. 

Per approfondire l’argomento influenza aviaria, abbiamo rivolto alcune domande a Calogero Terregino dell’Istituto Zooprofilattico Sperimentale delle Venezie, che si occupa di ricerca e controllo sanitario sull’influenza aviaria attraverso il Centro di referenza nazionale e il Laboratorio di referenza europeo per l’influenza aviaria e la malattia di Newcastle.

«Da una ventina di anni – spiega Terregino – negli uccelli selvatici la presenza del virus ad alta patogenicità che causa forme molto gravi negli animali sensibili è diventata costantemente presente, se non endemica. Questa presenza negli uccelli migratori ha portato alla diffusione pressoché globale» del virus. 

Ma se il virus è presente negli uccelli selvatici migratori, come fa a colpire gli animali da allevamento?

A questa domanda non vi è una sola risposta possibile. In alcuni casi si parla di «contaminazione ambientale», cioè di un contatto diretto con esemplari infetti (nel caso in cui i selvatici, durante la migrazione, stazionino nell’area dell’allevamento) o indiretto, ad esempio tramite le deiezioni dei selvatici oppure attraverso l’acqua: «Pensate, ad esempio, a un laghetto accessibile a selvatici e la cui acqua viene usata in un allevamento» dice Terregino. In altri casi, la diffusione del virus è dovuta all’uomo che, involontariamente, porta negli allevamenti il virus: si parla allora di contatti indiretti, che possono avvenire tramite personale, veterinari, tecnici aziendali, squadre di carico e di vaccinazione, familiari, veicoli e attrezzature.

«Nella maggior parte dei casi non sono allevatori irresponsabili, né persone che non sanno come applicare le misure di biosicurezza – puntualizza Terregino –. Anche in allevamenti molto moderni e ben gestiti può bastare una piccola disattenzione: è sufficiente, ad esempio, dimenticare una notte l’attrezzatura usata per fresare la lettiera in un posto dove i selvatici possono defecare» per far sì che il virus entri nell’allevamento. 

Biosicurezza: non solo reti, la differenza la fa l’attenzione dell’uomo

La parola che più spesso ritorna quando si parla di malattie che minacciano gli allevamenti è biosicurezza, termine con il quale si indica una serie di fattori, di misure e di comportamenti adottati per ridurre il rischio di contagio e di diffusione. In alcuni casi si tratta di requisiti strutturali: allevamenti nei quali sono presenti reti antipassero e dogane danesi (le barriere che impediscono al personale che lavora negli allevamenti di accedere agli spazi dove si trovano gli animali senza prima aver indossato calzature specifiche), ad esempio, hanno una biosicurezza maggiore di quelli che ne sono privi.

Le oche del Presidio Slow Food dell’oca in onto – © Archivio Slow Food

Ma una significativa differenza in termini di biosicurezza la fa la gestione umana, cioè l’attenzione esercitata dagli addetti ai lavori: negli accessi negli allevamenti, nel modo in cui entrano in contatto con strutture e attrezzature, nella cura posta nel cambiarsi gli abiti e nell’utilizzare abbigliamento adeguato, nella premura adottata per evitare di trasportare accidentalmente la pollina, cioè lo sterco dei polli, con le scarpe o con le ruote del trattore. Aspetti che incidono in maniera decisiva e che, se disattesi, possono avere effetti disastrosi, in particolare nel caso di allevamenti industriali e laddove sono più diffusi.

“Nelle aree con alte densità di allevamenti avicoli come quelle del nord Italia – ammette il ministero della Salute italiano – la diffusione dell’infezione, se non opportunamente controllata, è molto rapida ed è favorita da contatti crociati tra aziende funzionalmente collegate principalmente da automezzi di servizio”.

Slow Food Italia: basta allevamenti da migliaia di capi

Dato il grande numero di avicoli allevati negli stabilimenti industriali, è evidente che la rapida diffusione del contagio in questi contesti determini un aumento del rischio di trasmissione e infine di spillover, e quindi la necessità di abbattimenti su larga scala.  

L’epidemia globale avanza ogni anno: nel 2022 sono morti o sono stati abbattuti 131 milioni di esemplari di pollame domestico in 67 Paesi (15 milioni solo in Italia) e l’anno successivo altri 14 Paesi hanno segnalato focolai.

Negli ultimi mesi, poi, casi di influenza aviaria sono stati riscontrati anche in diversi mammiferi e, proprio di questi giorni, è la notizia della prima vittima umana dovuta all’influenza aviaria, in Messico. Una progressione che deve far riflettere, perché a ogni passaggio – dagli uccelli selvatici a quelli domestici e dai domestici ai mammiferi allevati – si sviluppano mutazioni che comportano l’adattamento del virus ad ospiti diversi, in alcuni casi anche all’essere umano.

Gli allevamenti free range e quelli rurali, nei quali gli animali hanno la possibilità di muoversi liberamente all’esterno, sono considerati più a rischio biosicurezza per via dell’esposizione all’ambiente esterno, e al possibile contatto con gabbiani, alzavole, germani reali, oche, cigni, in generale i migratori, e le loro deiezioni. Ma i capi allevati in queste aziende sono solo centinaia, non decine di migliaia come nei grandi allevamenti, e le contaminazioni dovute ai contatti con mezzi di trasporto, al personale e ai tecnici che si spostano tra aziende diverse è pressoché inesistente. L’isolamento di questi contesti è più semplice, così come l’impatto economico sulla comunità dovuto ai risarcimenti è ridotto. 

Gallina bianca di Saluzzo, Presidio Slow Food – © Valerie Ganio Vecchiolino

Uno studio, realizzato da Veterinari senza frontiere, Slow Food, Aiab e dall’istituto tedesco Thünen nell’ambito del progetto europeo Ppilow, sta indagando sulla percezione che hanno gli allevatori avicoli europei di questo problema e sulle pratiche poste in atto per difendersi da questa malattia virale, con l’obiettivo di fornire ai decisori europei informazioni per sviluppare politiche di prevenzione e gestione.

Ma perché una malattia un tempo diffusa nei selvatici oggi colpisce anche gli allevamenti di animali domestici avvicinandosi pericolosamente all’uomo? Una risposta è il progressivo avanzamento antropico in habitat naturali abitati da specie selvatiche, che aumenta il rischio di contatti e di sviluppo di zoonosi. 

Tra l’altro, il pollo è la specie più consumata al mondo. Solo in Italia, e solo nel 2023, il settore produttivo avicolo ha superato quota 1,2 milioni di tonnellate di carni e 12 miliardi di uova. La maggior parte di questi allevamenti è fortemente concentrata in Veneto (30%) in aree di pianura tra Verona e Padova – una vera e propria chicken valley – dove il sistema è molto connesso, con scambi di mezzi, passaggio di tecnici, grande numero di lavoratori nel settore, e anche in buona parte in Lombardia.

Il rischio aviaria è l’ennesima occasione per ribadire la necessità di cambiare un sistema alimentare che vede un consumo eccessivo di carni a basso costo provenienti da allevamenti industriali.

Un sistema che cela costi ambientali ed economici nascosti – basti pensare alle centinaia di milioni di euro dei risarcimenti erogati ai grandi allevamenti colpiti –, che ignora il valore di razze autoctone (che corrono il rischio di scomparire, se chi le alleva si trova suo malgrado in una zona dove è necessario procedere agli abbattimenti preventivi) e che presenta anche ingenti costi per la salute collettiva.

Ridurre in maniera sensibile il consumo di carne è buona parte della soluzione. Tutelare chi alleva in sistemi estensivi, in grado di offrire maggiore benessere animale, qualità e salubrità delle carni, è doveroso. La biosicurezza è applicabile anche in questi sistemi e l’impatto conseguente all’ingresso del virus dell’influenza aviaria in allevamenti di questo tipo non è paragonabile – così è stato fino ad ora – ai focolai scoppiati in allevamenti intensivi. Volendo riassumere, possiamo dire che il rischio epidemiologico negli allevamenti estensivi o rurali è molto contenuto rispetto a quello degli allevamenti industriali perché minori sono i contatti con altri punti della filiera.

A cura di Marco Gritti, m.gritti@slowfood.it

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