Mielofibrosi
La mielofibrosi è una patologia neoplastica rara del midollo osseo. Si sviluppa da una cellula staminale mutata e si distingue per la presenza di progressiva fibrosi midollare (fino alla formazione di osteosclerosi) e ingrossamento della milza e del fegato (per la presenza di cellule mieloidi). Si distingue una forma precoce (o pre-fibrotica), in cui l’unico segno può essere l’aumento delle piastrine ed una forma conclamata, dove oltre a sintomi “costituzionali” (febbre, dimagrimento, sudorazione notturna, prurito) si associano sintomi legati alla splenomegalia (difficoltà digestiva, compressione sugli organi vicini, ascite, epatopatia). Si riconoscono, inoltre, una forma primitiva ed una secondaria dovuta all’evoluzione di altre due patologie mieloproliferative, la policitemia vera e la trombocitemia essenziale. Dal punto di vista biologico possono essere riconosciute alcune mutazioni geniche caratteristiche: più del 50% dei pazienti risulta positivo per la mutazione dell’esone 14 del gene JAK2, che stimola una attività proliferativa incontrollata. Altre due mutazioni, la Calreticulina e la mutazione MPL del gene per la trombopoietina, caratterizzano il panorama delle cosiddette mutazioni “driver”. Negli ultimi anni, altre mutazioni “non-driver” sono state riscontrate con metodiche molecolari raffinate ed alcune di queste guidano attualmente la necessità di una rapida procedura trapiantologica.
L’incidenza è di 1 caso circa ogni 100.000 persone, tipica dei pazienti di età superiore ai 65 anni. Si stima però che poco più del 10% dei pazienti abbia alla diagnosi un’età inferiore ai 50 anni. In Italia si riscontrano circa 500-700 casi l’anno: nel nostro Policlinico si stimano circa 50 nuove diagnosi l’anno.
L’unico trattamento curativo è il trapianto di midollo osseo allogenico: considerata l’età di insorgenza e la presenza di comorbidità, molti dei pazienti continuano con la sola terapia farmacologica. Da alcuni anni possono essere utilizzati inibitori tirosin-chinasici della mutazione JAK2, attivi anche quando tale mutazione non è presente. Due inibitori sono già prescrivibili, con azione mirata sulla riduzione della splenomegalia e sui sintomi. Entrambi inducono tossicità ematologica con anemizzazione, principale problema durante la terapia. L’anemia è presente in circa il 40% dei pazienti all’esordio, ma può incrementare fino a più del 60% già alla fine del primo anno: a parte l’uso di fattori stimolanti l’eritropoiesi, come l’eritropoietina, molti pazienti devono essere sottoposti a terapia trasfusionale. Un terzo inibitore è in arrivo (attualmente in uso compassionevole presso il Policlinico) con uguale azione sulla splenomegalia e sui sintomi, ma con un particolare vantaggio sui pazienti anemici. Un quarto è attualmente in corso di sperimentazione presso Il Policlinico Umberto I nel setting dei pazienti con piastrinopenia.
Il futuro è nelle combinazioni farmacologiche: l’uso combinato degli inibitori più altri farmaci selettivi può permettere di modificare la patogenesi della malattia, agendo anche in maniera specifica sulla fibrosi midollare. L’outcome dei pazienti affetti da mielofibrosi è cambiato negli ultimi 5-10 anni: utilizzando il primo inibitore a disposizione è stato dimostrato un vantaggio di sopravvivenza. Nei prossimi anni si spera di ottenere, mirando la terapia al singolo paziente in base alle caratteristiche clinico-biologiche dell’esordio, un incremento di tale vantaggio.
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