Colestasi intraepatica familiare progressiva: il trattamento con inibitori di IBAT va iniziato il prima possibile

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Prof. Giuseppe Indolfi: “Questi farmaci andrebbero somministrati appena riconosciuta la malattia sulla base delle sue caratteristiche cliniche e biochimiche, senza attendere la diagnosi genetica”

Il tempo necessario all'esecuzione di un'indagine genetica può variare molto: in alcuni centri il risultato arriva in poche settimane ma la media è di almeno tre mesi. E per una malattia come la colestasi intraepatica familiare progressiva (PFIC), questo significa vivere per altri tre mesi con un sintomo altamente invalidante come il prurito colestatico. Per questo motivo, un gruppo di esperti europei si è riunito e ha sviluppato un algoritmo secondo il quale non bisogna attendere la diagnosi genetica della patologia, ma somministrare subito la terapia con farmaci inibitori di IBAT. Fra loro c'è un italiano: Giuseppe Indolfi, Professore di Pediatria all'Università di Firenze e responsabile del reparto di Epatologia dell'ospedale Meyer.

Le colestasi intraepatiche familiari progressive sono un gruppo di patologie genetiche che si possono manifestare nella loro forma di espressione più grave in epoca neonatale o comunque, nella stragrande maggioranza dei casi, nel primo anno di vita”, spiega il Prof. Indolfi. “Queste malattie del fegato si possono associare a scarsa crescita e portano a una colestasi che, dal punto di vista clinico, si esprime con diversi segni e sintomi, tra cui uno molto grave, il prurito. I pazienti con compromissione del fegato più importante, inoltre, diventano itterici, assumono cioè un colorito giallo della cute. È una malattia molto rara: a livello italiano siamo nell'ordine delle decine di pazienti, un numero comparabile a quello delle persone affette da sindrome di Alagille, una malattia per certi aspetti simile. Sono entrambe condizioni genetiche, ma la sindrome di Alagille è una malattia singola, provocata da una mutazione in un singolo gene, mentre le colestasi intraepatiche familiari progressive sono un gruppo di patologie molto rare”.

Il sospetto di essere in presenza di una colestasi intraepatica familiare progressiva nasce dall'osservazione di segni e sintomi della malattia e passa attraverso specifici esami di laboratorio, alcuni dei quali molto semplici, come la determinazione delle gamma-GT e degli acidi biliari; la diagnosi definitiva, invece, avviene tramite indagine genetica. Il trattamento farmacologico della PFIC, fino ad oggi, si è basato su una serie di terapie non eziologiche, che cioè non curano la malattia ma mirano a contenere i segni e i sintomi, in particolar modo il prurito: fra questi l'acido ursodesossicolico, gli antistaminici, la rifampicina e alcune resine che impediscono l'assorbimento degli acidi biliari a livello intestinale. Ultimamente, però, per la PFIC sono stati approvati due nuovi farmaci, odevixibat e maralixibat, appartenenti alla categoria degli inibitori di IBAT, cioè del trasportatore che media l'assorbimento degli acidi biliari a livello di quella porzione di intestino che si chiama ileo: queste molecole sono indicate proprio per la gestione del prurito colestatico associato alla patologia.

L'algoritmo messo a punto da Indolfi e dai colleghi europei nasce proprio dalla necessità di capire quale sia il modo migliore per impiegare queste nuove terapie. “L'idea è innovativa e forse anche provocatoria, infatti ha creato un po' di dibattito nella comunità scientifica: si tratta di impiegare gli inibitori di IBAT per controllare quanto prima il prurito nei pazienti affetti da PFIC”, sottolinea Indolfi. “Immaginiamo un bambino piccolo che ha le caratteristiche cliniche di questa malattia e un quadro biochimico compatibile, quindi una colestasi a basse gamma-GT e ad alti acidi biliari, ovvero il fenotipo più classico della maggior parte delle PFIC: in questo caso, secondo l'algoritmo, dovremmo iniziare a somministrare il farmaco prima ancora di avere la conferma dell'indagine genetica. Prima interrompiamo la circolazione entero-epatica degli acidi biliari, che causano danni al fegato, prima riusciamo a modificare la storia naturale di queste malattie colestatiche. Una volta che c'è un sospetto concreto di malattia, basato sulla clinica e sulla biochimica, dobbiamo cercare di guadagnare più tempo possibile per liberare il bambino dalla presenza del prurito”.

Nello studio condotto da Indolfi e colleghi, pubblicato lo scorso gennaio su JHEP Reports, si fa riferimento solo al farmaco odevixibat, perché al tempo maralixibat non era ancora stato approvato per la patologia. Ma il ragionamento è valido per entrambe le terapie. “Il meccanismo d'azione dei due farmaci è esattamente lo stesso, quindi l'algoritmo può essere adottato per tutti gli inibitori di IBAT. Non solo: lo stesso concetto è applicabile anche alla sindrome di Alagille”, prosegue il Prof. Indolfi. “La nostra idea è che bisogna accelerare i tempi: in una condizione clinica in cui non abbiamo alternative terapeutiche reali, questa nuova categoria di farmaci va utilizzata il prima possibile. Chiaramente, il riconoscimento della malattia sulla base delle caratteristiche cliniche e biochimiche dev'essere fatto ad opera di epatologi esperti. In questo modo i casi che hanno una presentazione clinica tipica potranno beneficiare dell'algoritmo, perché queste terapie cambiano davvero la qualità di vita del paziente”.

Molti specialisti, a livello europeo, stanno già procedendo in questo senso. I medici che si occupano di PFIC – ma anche di sindrome di Alagille – hanno a disposizione questi farmaci da pochissimo tempo e, trattandosi di malattie rare, il numero dei pazienti è limitato. Tuttavia, negli ultimi anni, le conoscenze su queste patologie sono cresciute in maniera vertiginosa. “Prima avevamo tanti farmaci, ma nessuno di questi era realmente testato per le PFIC e nessuno era efficace quanto i nuovi inibitori dell'assorbimento intestinale degli acidi biliari. Ora l'approccio a queste malattie sta cambiando in maniera radicale: cambia per il medico, perché ha uno strumento valido e scientificamente provato per trattare il prurito colestatico, ma soprattutto cambia per i pazienti, perché il prurito è uno di quei sintomi che può davvero sconvolgere la vita, non soltanto dei piccoli pazienti ma anche delle famiglie”, conclude l'epatologo. “Avere un farmaco – e questa è l'esperienza pratica comune – che in pochi giorni permette al bambino di dormire, di mangiare, di essere più rilassato, e ai genitori di riposare e di non dover stare attenti che il bambino non si gratti a sangue durante la notte, modifica completamente la qualità di vita delle famiglie”.

Recapiti
info@osservatoriomalattierare.it (Francesco Fuggetta)