Il dolore di Gaza richiede una pace vera - Partito Socialista Italiano

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di Andrea Follini

La Corte Penale Internazionale è chiamata pronunciarsi sui crimini di guerra o i crimini contro l’umanità commessi da persone fisiche. È l’elemento che la contraddistingue dalla Corte Internazionale di Giustizia, che invece si pronuncia sul comportamento degli Stati. Ecco perché sono il premier israeliano Benjamin Netanyahu, il suo ex ministro della difesa Yoav Gallant ed il comandante delle brigate Al-Qassam, Mohammed Diab Ibrahim Al-Masri detto Deif i destinatari del mandato di arresto emesso nei giorni scorsi dalla Corte Penale Internazionale. La discussione sull’efficacia del provvedimento era già emersa lo scorso 20 maggio quando Karim. A.A. Khan, Procuratore capo della Corte, aveva reso note le sue richieste di mandato d’arresto nei confronti di questi esponenti accusati, in relazione a quanto accaduto il 7 ottobre 2023 e nei mesi successivi, di “sterminio come crimine contro l’umanità”; “omicidio come crimine contro l’umanità”; “cattura di ostaggi come crimine di guerra”; “commissione di stupri e altre violenze sessuali come crimini contro l’umanità”; “tortura come crimine contro l’umanità”; “altri atti inumani come crimini contro l’umanità”; “trattamento crudele come crimine di guerra”; “offesa alla dignità personale come crimine di guerra”. Accuse pesantissime che ora hanno portato alla definizione del provvedimento che obbliga ognuno dei centosessanta Paesi sottoscrittori degli accordi di Roma del 1998 (approvazione dello statuto della Corte Penale Internazionale – CPI) a mettere in manette i tre leader qualora gli stessi mettessero piede sul loro suolo. Del clamore che tale provvedimento della Corte ha suscitato, facendo intervenire con dichiarazioni controverse le cancellerie di mezzo mondo, hanno già scritto tutte le maggiori agenzie giornalistiche del mondo. Non sono mancate le discordanze anche nel Governo italiano, dove alla netta presa di distanza dalla Corte pronunciata dal ministro Salvini, hanno fatto da contro altare le dichiarazioni del ministro Crosetto che ha giudicato “vincolante” il parere dei giudici de L’Aia; salvo poi tirare un po’ il freno a mano, dichiarando più recentemente che è “Assurdo equiparare Netanyahu con i terroristi. La linea del Governo è di approfondire”. In attesa di tali approfondimenti, tali che non facciano apparire ancora una volta il nostro Governo un’armata Brancaleone, da più parti ci si interroga su quale sia il futuro della democrazia israeliana dopo il pronunciamento della Corte. Nel Paese si sono levati gli scudi, non tanto a difesa dei due esponenti governativi, quanto piuttosto per il timore che vi possa essere un rinnovato sentimento antisemita che si diffonda così, quasi “a prescindere”, nel mondo occidentale. Nulla sta facendo certo il premier Netanyahu per calmare le acque, mentre invece, su questo solco dell’antisemitismo sta tracciando la sua difesa. Ma probabilmente la pronuncia giudiziaria qualche effetto lo ha generato, se per la prima volta dalla ripresa della guerra israelo-palestinese seguita al 7 ottobre, il governo di Tel Aviv parla di cessare il fuoco. Un proposito che ha certo le sue difficili dinamiche, ma che una volta concretizzato non risolve se non una porzione minore del problema. Si da corpo all’accordo tra Israele e Libano per far tacere le armi tra il nord del territorio israeliano ed il sud del Paese dei Cedri. Un accordo che non può prescindere dalla capacità dell’Iran di saper “contenere” Hezbollah, cosa che non è certamente in grado di garantire il fragile governo di Beirut. Non sono mancate, come era logico aspettarsi, le proteste dell’ultradestra israeliana che vede in questa intesa una vera e propria resa. Ma potrebbe invece essere quel primo passo necessario ad un ritorno della stabilità nel quadrante, condizione che tutti ormai ricercano, stanchi di un conflitto inconcludente rispetto agli obiettivi iniziali delle due fazioni in lotta, ovvero la reciproca distruzione, che ha portato odio, morte e distruzione in una misura inaccettabile. Un passo comunque sicuramente importante, anche nell’ottica di un ampliamento del cessate il fuoco verso il martoriato territorio di Gaza. Già, perché proprio Gaza è e rimane il cuore del problema. Gaza non esiste più. La maggior parte dei suoi edifici è stata distrutta. Così come il tessuto sociale che legava i quasi due milioni di abitanti di questo piccolo lembo di terra. Gaza ha un bisogno viscerale di rinascere. Perché ciò sia almeno ipotizzabile, è qui che serve far cessare il cupo suono delle armi, il fragore delle bombe, il pianto di un popolo.

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