In diverse discipline, la spinta alla performance migliore, come testimoniano anche campioni olimpici, è fonte di problematiche che spingono a cercare soluzioni nel cibo. A rischio anche i dilettanti. Ma l’attività sportiva, se ben orientata, diventa una palestra per migliorarsi nella vita
di Vita e Salute
Gli atleti vivono le aspettative di perfezione, la costante necessità di migliorarsi, la pressione pubblica per vincere. In più “oggi è richiesto un impegno intenso e protratto, che determina problemi di usura fisica e mentale, e sappiamo quanto contino i fattori emotivi”, afferma Pietro Trabucchi, psicologo di varie squadre olimpiche, docente dell’università degli studi di Verona e referente per la ricerca sulla psicologia delle attività in ambienti estremi presso il CeRiSM, Centro di ricerca interuniversitario Verona-Trento sulla prestazione umana.
Fragilità emotive
Spesso lo stress legato alla competizione e all’agonismo è troppo per i giovani atleti, più vulnerabili di altri alla pressione psicologica. Nel contesto della ginnastica, per esempio, fatto di elevate prestazioni e feroce competizione, intesa attività fisica e rigide regole alimentari, i disturbi alimentari sono frequenti. Tanto che la Federazione ginnastica d’Italia e la Fondazione auxologico Irccs di Milano hanno lanciato un progetto di ricerca per comprendere a fondo le ragioni della loro comparsa, e di formazione di tutti gli operatori coinvolti per prevenirne l’insorgenza.
Anoressia e bulimia nervosa, disturbo da alimentazione incontrollata, ortoressia, vigoressia e disturbo evitante restrittivo dell’assunzione di cibo sono tra le malattie più diffuse che in Italia causano 5.000 morti all’anno. “Il 75% dei pazienti guarisce se individuato e trattato per tempo, entro due anni dall’esordio e con una traiettoria di cura di cinque anni”, spiega Leonardo Mendolicchio, direttore dell’unità operativa di riabilitazione dei disturbi alimentari e della nutrizione in Auxologico. “Bisogna intervenire bene e in tempo, perché ciò può fare la differenza nel destino della vita di giovani ragazze e ragazzi, parliamo di una fascia d’età dagli 11 ai 14 anni. Dobbiamo evitare che le persone si ammalino e ricordare, nel nostro Paese, il valore primario della prevenzione”. Dopodiché, la genesi di un disturbo del comportamento alimentare è multifattoriale e comprende meccanismi diversi che coinvolgono aspetti genetici, biologici e psicologici, meccanismi nervosi ed endocrino-metabolici, e fattori sociali. Un’interazione non facile da districare: per questo la gestione deve essere multidisciplinare.
Piccole fissazioni dietetiche
Anche chi pratica regolarmente sport in modo amatoriale, pur in assenza dell’alienazione vista nei professionisti, può essere vulnerabile a certe richieste. Per esempio, ci sono piccole fissazioni alimentari negli atleti amatoriali che praticano corsa, bici e nuoto e che “a volte tendono a collegare in modo semplicistico prestazione e peso, prestando alla dieta una maniacale attenzione, senza considerare che quando l’alimentazione non è adeguata allo sforzo richiesto diventa dannosa in termini di prestazioni e di salute”, spiega Paolo Barbera, coach nelle discipline di endurance, triathlon e Ironman e atleta finisher di molti Ironman, inclusi i mitici campionati del mondo alle Hawaii. “L’effetto sarà opposto, l’organismo darà il via a un processo di catabolismo muscolare, trasformando aminoacidi in zuccheri. Ci vuole un equilibrio, mentale e alimentare, che renda sostenibile la prestazione sportiva ma anche tutte le altre attività quotidiane, professionali e personali”.
Altri rischi per l’equilibrio interiore
Oltre a quelli alimentari, altri tipi di disturbi sono in agguato. “C’è l’eccessiva ansia da recupero, di chi male sopporta i giorni di pausa necessari per dare tempo al corpo di adattarsi allo stimolo. Il voler riempire anche quei giorni di altre attività non è un buon segno, la dipendenza è in agguato”, spiega Barbera. C’è poi chi fa riferimento a modelli irrealistici e persegue obiettivi ben oltre la propria portata, magari trascurando famiglia e lavoro finanche ricorrendo al doping, che è più diffuso di quanto non si immagini. In questi casi, “l’attività fisica rischia di diventare una malattia, un secondo lavoro e ciò accade più spesso quando lo sport è fonte di gratificazioni e soddisfazioni assenti negli altri ambiti della nostra vita”, continua Barbera che puntualizza: “è bene cercare di migliorarsi, ma a voler fare dell’attività fisica il proprio momento di riscatto personale si rischia di non accettare le sconfitte che sono invece inevitabili. Ricordo che l’alternativa non è mai tra vittoria e sconfitta, perché è proprio quando le cose vanno male che si impara di più”.
Infine, aggiunge Trabucchi, “a differenza dei professionisti, gli amatori hanno il controllo del proprio ottovolante emotivo. Eppure, sono vittime di aspettative eccessive verso se stessi e la frustrazione di non essere all’altezza può essere tale da provocare l’abbandono dell’attività. Il senso di inadeguatezza va superato concentrandosi sul superamento dei propri limiti e lavorando sulla propria autostima”.
I risvolti positivi
C’è ovviamente un rovescio della medaglia positivo, rappresentato da una sana pratica sportiva. Senza esitazione, Barbera elenca una serie di insegnamenti e di cambiamenti che la pratica sportiva regala molto democraticamente a tutti, grandi e piccini, ricchi e poveri, grassi e magri.
“Gli sport, soprattutto di endurance, insegnano la fiducia in se stessi. La consapevolezza che costanza e motivazione porteranno a dei risultati si trasferisce dallo sport agli altri ambiti della vita quotidiana”, sottolinea il coach. “La pratica dell’impegno di medio-lungo periodo regala una resistenza fisica e mentale e, con essa, la capacità di affrontare con tenacia difficoltà altrimenti considerate insormontabili. Poi c’è la pazienza, insegnamento prezioso in un’epoca di tutto e subito”. Non da ultimo, prosegue Trabucchi, “c’è la capacità di gestire e fronteggiare le avversità, la cosiddetta resilienza, che viene insegnata a fatica nella nostra società e cultura, dove si tende a evitare ai giovani l’esperienza di frustrazioni e competizioni, che però esistono là fuori, e a considerare come valore la mancanza di ogni confronto”. Ciò è sbagliato, dice lo psicologo, perché “la difficoltà dosata aiuta a crescere e aumenta le risorse. Infine, si plasma il mindset della persona in senso disciplinato, insegnandole a pianificare, prepararsi, autovalutarsi, impegnarsi regolarmente, quando non quotidianamente”.
Perché “senza forza di volontà, senza impegno non si va da nessun a parte. L’allenamento è tutto”, scrive Bruno Brunod, campione mondiale di skyrunning a Breuil Cervinia nel 1998, nella prefazione di Perseverare è umano (Corbaccio, pp. 188, € 9,99) di Trabucchi. Tutta l’epopea del talento è stata da tempo abbandonata dagli allenatori, che sanno bene come sia importante spingere piuttosto il tasto dell’impegno e della tenacia per far progredire i propri atleti. In più, la tendenza alla “passivizzazione” è rafforzata dalla struttura antimeritocratica della società che non sa garantire in partenza il rispetto del principio di proporzionalità tra impegno espresso e risultato raggiunto. Ciò spinge all’inattività e semmai al baro. Ma il baro, il furbo, l’imbroglione non trovano spazio nello sport, che si identifica con le proprie regole, per quanto convenzionali.
Infine, tra i benefici dello sport, ci sono i riflessi positivi dell’attività fisica sulle funzioni cognitive, facilmente comprensibili se si pensa che il sistema nervoso centrale è nato per coordinare il movimento e c’è una riduzione dell’insicurezza, fonte di stress emotivo, tanto maggiore quanto prima capiamo che l’avversario non è l’altro ma che la sfida e il confronto sono con noi stessi.