Come?
Basandosi su Rabbit Os, che funziona come una sorta di livello intermedio attraverso cui favorire l’accesso a determinate applicazioni tramite un portale web. Quest’ultimo, chiamato Rabbit Hole, presenta vari link da cui si può accedere ai propri account su servizi quali quelli sopracitati (Uber, Spotify, Amazon…); una volta effettuato l’accesso, si dà a Rabbit Os il lasciapassare per eseguire qualsiasi operazione sull’account collegato per proprio conto. Ed ora, come nei saggi argomentativi, confutazione dell’antitesi.
Immaginiamo che i “paladini della privacy” – quali tutti dovremmo essere, per inciso – saranno pervasi di perplessità circa la sicurezza dei propri dati, ed è proprio qui che Jesse Lyu interviene a rassicurarci: il dispositivo non memorizza le credenziali degli utenti di servizi di terze parti. Non solo, l’utente è libero di disabilitare l’accesso di Rabbit Os in qualsiasi momento.
Insomma, R1 è un device in grado di imparare dagli utenti, ed è proprio questa modalità di apprendimento sperimentale che lo rende ad oggi un polo attrattivo: osserva come un essere umano esegue un compito tramite un’interfaccia mobile, desktop o cloud, e poi lo replica autonomamente. ‘Compiti’ complessi, che in genere richiedono interazioni in tempo reale: la ricerca di itinerari di viaggio, la prenotazione della miglior opzione a seconda degli impegni e del budget, l’aggiunta di articoli al carrello di un supermercato virtuale, il completamento del check-out e il pagamento.
Per consentire a R1 di imparare una nuova azione, è sufficiente puntare la fotocamera verso lo schermo del desktop o del telefono e svolgere l’operazione in questione: così facendo apprenderà le procedure che intendete automatizzare e, per fargliele attuare, vi basterà premere un pulsante e verbalizzare la richiesta.
E voi, per quali attività vi servireste del prezioso dispositivo AI prêt-à-porter?