Dai podcast al giornalismo sul campo - Comin and Partners

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Grazie al suo approccio innovativo, Cecilia Sala è una delle voci più riconoscibili nel mondo del giornalismo digitale. L’abbiamo incontrata per chiederle come la digitalizzazione stia trasformando il giornalismo: dall’esperienza sul campo ai podcast, ci racconta come i nuovi media stanno ridefinendo il modo di informare e connettersi con il pubblico.

Da anni si parla di crisi dei media tradizionali, giornali e tv soprattutto. Come è cambiato il giornalismo negli ultimi dieci anni?

Negli ultimi dieci anni, abbiamo assistito a una trasformazione profonda del giornalismo, influenzata soprattutto dai nuovi media. La distinzione tra stampa tradizionale, televisione, giornali online e piattaforme social è diventata sempre più sfumata. Il giornalismo digitale, inizialmente più friendly, gratuito e accessibile, si distingueva per uno stile più semplice e diretto rispetto ai giornali tradizionali, che spesso danno per scontato che i lettori abbiano seguito ogni passo delle analisi politiche, magari in articoli precedenti. Il grande vantaggio dei media digitali era proprio questa freschezza, ma avevano anche un grande limite: non riuscivano a coprire il giornalismo sul campo, come facevano i grandi quotidiani tradizionali.

Tuttavia, oggi realtà come Chora Media e il Post hanno dimostrato che anche un media digitale può avere inviati sul campo, anche all’estero.

In Italia la politica estera non ha storicamente un vasto pubblico, invece prodotti giornalistici come il tuo podcast, uno dei più seguiti e apprezzati a livello nazionale, hanno reso più accessibile questo racconto. Come è cambiata la percezione del pubblico rispetto alle crisi internazionali?

Non so se i podcast, in particolare, abbiano reso le crisi internazionali più accessibili a un pubblico vasto, ma credo che le notizie estere si siano imposte da sole, soprattutto con eventi come la presa di Kabul da parte dei Talebani nell’agosto del 2021 e l’invasione dell’Ucraina nel febbraio 2022. Guardando ai giornali tradizionali italiani, che per anni hanno relegato gli Esteri a una posizione marginale rispetto alla politica interna, si nota come questa tendenza sia cambiata negli ultimi anni. Oggi, anche le testate più tradizionali dedicano ampio spazio alle notizie estere.

Pensi che le nuove generazioni siano più attente alle notizie che vengono dal mondo globalizzato?

Credo che ci sia una generazione, quella tra i 25 e i 45 anni, che ha una percezione diversa delle crisi internazionali rispetto a generazioni precedenti. Gli Esteri, per loro, sono meno esotici e più vicini. Un esempio che faccio spesso è il mio rapporto con l’Iran: io seguo da tempo questo Paese e, quando penso a una giovane donna iraniana di 29 anni, sento che abbiamo molto in comune. Magari ascoltiamo la stessa musica, usiamo gli stessi social network e abbiamo riferimenti culturali comuni. È una sensazione di vicinanza che non sarebbe la stessa se confrontassimo una ventinovenne iraniana con una sessantenne italiana. Il senso di globalizzazione culturale rende le crisi internazionali più rilevanti e meno distanti. Questa connessione è meno forte per le generazioni più adulte.

Un altro esempio che mi piace fare è quello di Elon Musk e Maurizio Lupi: per la mia generazione, Elon Musk è un personaggio noto, che appare quasi quotidianamente nei nostri feed digitali. Per mia madre, invece, Maurizio Lupi, politico italiano ben noto, è molto più familiare di Musk, che resta per lei un personaggio quasi esotico. Questo dimostra come le nuove generazioni siano più aperte e interessate a ciò che succede all’estero, grazie alla globalizzazione e all’uso comune di piattaforme digitali.

Dentro un panorama mediatico competitivo come quello di oggi, come mantieni il rapporto di fiducia con il tuo pubblico?

Il patto con il pubblico, sia esso lettore o ascoltatore, deve essere basato su onestà e trasparenza. Il mio lavoro non è confermare le opinioni del pubblico, ma raccontare storie vere e rilevanti. Questo vale sia per i media tradizionali sia per quelli digitali. Il giornalista, a mio parere, non è un attivista: non deve perorare una causa o fare propaganda. Detto ciò, non credo neanche nella neutralità assoluta. Non è possibile essere completamente neutrali, perché come esseri umani siamo influenzati dalle esperienze e dalle emozioni. E questo è ancora più vero quando si lavora sul campo e si vedono gli eventi con i propri occhi.

Ad esempio, non posso essere neutrale quando vedo che la Russia invade l’Ucraina o quando Israele sgancia bombe su un’area dichiarata sicura, costringendo persone già evacuate a spostarsi nuovamente. Non sono neutrale quando vedo i paramilitari iraniani uccidere manifestanti adolescenti o quando i Talebani arrestano una giornalista più giovane di me in Afghanistan. Il punto non è essere neutrale, ma essere onesta e trasparente. Se una notizia è vera e rilevante, il mio compito è riportarla, anche se va contro le opinioni o aspettative del pubblico. L’importante, quindi, è essere intellettualmente onesti e curiosi. Se scopri qualcosa che va contro le tue convinzioni, devi essere disposto a cambiare prospettiva e accettare la realtà per quella che è, non per come vorresti che fosse. Il giornalismo non deve cercare di piegare la realtà alle proprie opinioni, ma svelarla per ciò che è.

Sui conflitti abbiamo visto che ottenere informazioni verificate è sempre molto complicato. Quali sono i principali rischi e vantaggi di fare giornalismo sul campo nell’era digitale?

Nell’era digitale, uno dei rischi maggiori per i giornalisti è la diffusione di informazioni false, soprattutto sui social media. La mole di contenuti non verificati è enorme e, se non si presta attenzione, è facile essere ingannati o manipolati. Tuttavia, ci sono anche vantaggi enormi: oggi abbiamo a disposizione una quantità di informazioni visive e digitali impensabile in passato. I video dei droni, le immagini da smartphone, le telecamere a circuito chiuso, tutti questi strumenti offrono un livello di verifica che era impensabile anche solo pochi anni fa.

Durante la guerra in Vietnam, era molto più facile per un governo o un’istituzione mentire senza essere smentiti. Oggi, se qualcuno cerca di manipolare i fatti, c’è una probabilità molto più alta che venga smentito rapidamente da una prova visiva o digitale. Certo, mentire è sempre possibile, ma le probabilità di essere smascherati sono molto più alte, e questo offre un vantaggio non solo ai giornalisti, ma anche a lettori e ascoltatori, che hanno accesso a una quantità incredibile di dati con cui confrontare ciò che viene riportato.

E poi c’è la questione della sostenibilità economica. Quali sono i modelli che funzionano per i podcast nel giornalismo?

La sostenibilità economica dei podcast dipende da diversi fattori. Ci sono moltissimi podcast che vengono realizzati in modo amatoriale, per pura passione, ma ci sono anche podcast che riescono a guadagnare e a diventare un lavoro a tempo pieno per chi li produce. Ad esempio, una delle modalità più comuni è quella di avere dei podcast “traino” con un grande pubblico, che servono per pubblicizzare e sostenere economicamente altri podcast più piccoli, magari sponsorizzati da aziende. Un altro modello è quello delle piattaforme come Spotify, che pagano per avere l’esclusiva di alcuni podcast, coprendo così i costi di produzione. Infine, ci sono i cosiddetti diritti secondari: un podcast può generare entrate dalla vendita dei diritti per adattamenti cinematografici o letterari. Il mio primo podcast, Polvere, ha avuto molto successo e ha generato entrate proprio dalla vendita dei diritti per un libro e per una serie documentaria.

Ci sono diversi modelli che possono funzionare, ma tutto dipende dal tipo di podcast e dal pubblico a cui si rivolge.

Che consiglio daresti ai giovani che vogliono intraprendere la carriera giornalistica?

Il mio consiglio principale è di iniziare presto e di non scoraggiarsi se all’inizio si fanno lavori che non rispecchiano esattamente ciò che si desidera fare. Quando ho iniziato a 19 anni, sapevo che nessuno mi avrebbe mandata subito in zone di crisi come l’Ucraina o l’Iran. È troppo pericoloso e costoso inviare un giovane reporter senza esperienza in luoghi così rischiosi. Così ho cominciato con compiti più semplici, ma questo mi ha permesso di imparare sul campo e di crescere. Il giornalismo oggi è un settore che si sta reinventando, e questo richiede una grande capacità di adattamento. Non esiste più la gavetta tradizionale, dove si saliva di livello mano a mano che le generazioni precedenti andavano in pensione.

Oggi, i giornalisti devono inventarsi il proprio percorso. È un mestiere che si impara facendolo, più che studiandolo sui libri, e chi vuole intraprendere questa carriera deve essere disposto a fare esperienze diverse e a crescere gradualmente.

Cecilia Sala, 29 anni, romana, è una giornalista e inviata di guerra italiana, una delle voci emergenti più influenti nel panorama del giornalismo contemporaneo. Scrive per “Il Foglio” ed è autrice e conduttrice di podcast di successo per “Chora News”, tra cui “Stories” e “Polvere”.

Immagine:  © Fabrizio Mingarelli

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