Oltre la terapia: come l’esperienza del paziente può trasformare le decisioni sanitarie

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Dalla qualità della vita alla rimborsabilità: l’Associazione Nazionale Alfa1-AT ODV racconta il valore della partecipazione informata nei processi regolatori

Il tema della qualità di vita e della necessità che questa dimensione sia rappresentata in modo competente dalle associazioni di pazienti è stato al centro del dibattito promosso anche quest’anno nell’ambito del progetto InPAGs, che mira a rafforzare la partecipazione delle associazioni ai processi regolatori.

Proprio a partire da queste riflessioni, abbiamo intervistato il dott. Giancarlo Magri, dell’Associazione Nazionale Alfa1-AT ODV, con cui abbiamo approfondito come la qualità di vita possa essere influenzata dalle scelte di natura organizzativa adottate. Nel corso del confronto, abbiamo discusso del valore delle competenze e delle informazioni maturate all’interno delle realtà associative, e di come questi elementi contribuiscano a una rappresentanza consapevole, preparata e realmente radicata nei bisogni delle persone.

Dott. Magri, Alla luce della sua esperienza clinica, ritiene che il contributo diretto del paziente – in particolare rispetto alla rappresentazione della qualità della vita – possa offrire un valore aggiunto nei processi decisionali dell’Agenzia Italiana del Farmaco? Può questo tipo di contributo incidere, ad esempio, nella valutazione dell'efficacia percepita di una nuova terapia, nella definizione dei criteri di eleggibilità o nella decisione sulla rimborsabilità di un farmaco?

Il contributo del paziente nei processi regolatori non è sostitutivo dell’evidenza scientifica, ma è assolutamente complementare. In particolare, la voce del paziente fornisce informazioni cruciali su aspetti che nessuna indagine strumentale o dato clinico può pienamente cogliere: l’esperienza vissuta della malattia, l’impatto quotidiano dei sintomi, la reale efficacia percepita di un trattamento e la qualità della vita che ne deriva. Attraverso la partecipazione dei pazienti – o meglio, delle associazioni che li rappresentano – l’Agenzia del Farmaco può acquisire una prospettiva più ampia e realistica, utile non solo per valutare il beneficio clinico di una terapia, ma anche per capire se e quanto questa terapia possa tradursi in un miglioramento concreto della vita dei cittadini. Questo tipo di contributo può orientare decisioni complesse come la rimborsabilità, la definizione dei criteri di accesso o l’eventuale adattamento dei criteri rispetto a quanto stabilito in ambito europeo. La medicina dei numeri è fondamentale, ma da sola non è sufficiente. Solo affiancando alla valutazione tecnico-scientifica una lettura esperienziale, fondata sull’ascolto dei pazienti, possiamo davvero parlare di medicina centrata sulla persona e garantire scelte regolatorie più giuste, inclusive e sostenibili.

Nella sua esperienza professionale, ha potuto riscontrare quanto le informazioni e le testimonianze dirette fornite dal paziente, anche al di fuori dei parametri clinici standard, abbiano contribuito a migliorare la presa in carico complessiva della persona? In che modo questi elementi esperienziali hanno influenzato la gestione della patologia e il percorso terapeutico?

Nella pratica clinica quotidiana, il contributo diretto del paziente è spesso ciò che consente di trasformare un approccio meramente biologico in un vero percorso di cura personalizzato. Le informazioni che il paziente fornisce – anche attraverso un linguaggio informale, personale, perfino dialettale – sono fondamentali per comprendere la reale efficacia di un trattamento nella sua vita quotidiana, le eventuali criticità e gli interventi atti a favorire l’aderenza terapeutica. Il paziente che incontriamo in ambulatorio è, in un certo senso, una rappresentazione parziale: lì assume un ruolo, si adatta a un ambiente strutturato, si rapporta con un linguaggio medico. Ma la sua realtà quotidiana è un’altra, ed è proprio in quella dimensione che la malattia impatta realmente. Capire come una terapia interferisce con il lavoro, con la gestione dei figli, con le relazioni affettive o con la propria autonomia, ci permette di modulare le scelte cliniche in modo più umano, più efficace e spesso anche più sostenibile. Per questo motivo, il coinvolgimento del paziente nei percorsi regolatori o decisionali non deve essere considerato un elemento accessorio, ma parte integrante di una medicina che vuole essere realmente centrata sulla persona. Solo ascoltando chi vive la malattia possiamo cogliere la portata di ciò che i numeri da soli non ci dicono.

Nella sua esperienza, quanto conta, oltre all'efficacia clinica, anche la modalità di somministrazione di una terapia nel determinare l’impatto concreto sulla qualità della vita del paziente? Ritiene che, talvolta, l’innovatività di un trattamento risieda non solo nella molecola o nel meccanismo d’azione, ma anche nella capacità di adattarsi meglio alla quotidianità della persona, riducendo il peso della malattia nella vita di tutti i giorni?

Abbiamo avuto modo di sperimentare in prima persona quanto la modalità di somministrazione di una terapia possa incidere in modo significativo sulla qualità della vita dei pazienti. La nostra associazione, che si occupa di persone affette da una condizione genetica rara, patologia caratterizzata dalla carenza di una specifica proteina da reintegrare settimanalmente per via endovenosa, in ambiente ospedaliero con file F, dopo alcuni incontri con AIFA è riuscita ad ottenere la possibilità della domiciliazione della terapia sostitutiva come da pubblicazione in G.U.  della Determina n.747/2012 G.U. 4-1-2013. Come spesso avviene il recepimento delle determine nazionali a livello regionale è complicato e di difficile attuazione; abbiamo perciò avviato, in particolare per la tutela del paziente fragile, un progetto pilota in collaborazione con il Centro di Riferimento per il Deficit di Alfa1 Antitripsina degli Spedali Civili di Brescia, il Centro Territoriale delle Malattie Rare, ASST Spedali Civili di Brescia e SITRA (Servizio Infermieristico Tecnico Riabilitativo Aziendale). Si è infatti, attivato un servizio di somministrazione a domicilio della terapia attraverso il servizio ADI – Assistenza Domiciliare Integrata. Si è inoltre avviato un percorso educazionale per l’autosomministrazione domiciliare. Per molti pazienti – in particolare per gli anziani, o per coloro che risiedono lontano dai centri ospedalieri – questo ha rappresentato un cambiamento radicale. È venuta meno la necessità di spostamenti frequenti, spesso complessi e faticosi con necessità di caregiver non sempre disponibili, e si è ridotto in modo evidente l’impatto organizzativo della terapia sulla vita quotidiana. Abbiamo rilevato, anche attraverso un confronto diretto con i pazienti coinvolti, che la possibilità di ricevere il trattamento a casa ha comportato un miglioramento significativo della percezione di autonomia, benessere e gestione del tempo. Questo dimostra che, in molti casi, l’innovatività non risiede unicamente nella molecola o nella tecnologia del farmaco, ma anche nei modelli organizzativi e nella capacità del sistema di adattare la cura alla persona, e non viceversa. È un percorso recepito anche in altre provincie e regioni, anche se ancora non in modo uniforme sul territorio nazionale, che sosteniamo e aiutiamo ad avviare. Rappresenta un esempio concreto di sanità centrata sul paziente e orientata al miglioramento della qualità della vita, oltre che un'opportunità di efficientamento per il sistema nel suo complesso. Per questo motivo è essenziale che le associazioni di pazienti vengano coinvolte attivamente nei processi di valutazione e programmazione sanitaria. La loro partecipazione consente di evidenziare aspetti della gestione della malattia che difficilmente emergerebbero dai soli dati clinici, ma che sono determinanti per costruire percorsi di cura realmente centrati sulla persona e sostenibili per l’intero sistema.

Secondo lei, quanto è importante che il paziente – o l’associazione che lo rappresenta – disponga di una formazione adeguata, non solo sulla propria patologia, ma anche su aspetti più ampi del contesto sanitario e regolatorio? Ritiene che una preparazione di base sia necessaria per poter instaurare un dialogo costruttivo ed efficace con i professionisti e le istituzioni, capace di generare un reale valore per entrambe le parti?

Ritengo che una formazione di base sia fondamentale per quei pazienti – o rappresentanti delle associazioni – che intendono svolgere un ruolo attivo nei processi partecipativi, in particolare quando si interfacciano con enti regolatori, istituzioni sanitarie o gruppi scientifici. È importante che sappiano di cosa parlano, che conoscano i termini, i processi e i contesti in cui si muovono, non per diventare tecnici, ma per riuscire a essere interlocutori efficaci, credibili e costruttivi. Un altro ruolo che sta acquisendo crescente rilevanza è quello del paziente esperto: una figura formata, capace di dialogare con altri pazienti, di orientare, chiarire, sostenere chi si trova ad affrontare una diagnosi o un percorso terapeutico complesso. In alcune realtà associative strutturate è già presente, ma nelle associazioni più piccole – magari composte da poche decine di persone sparse sul territorio – è oggettivamente più difficile da sviluppare, anche per mancanza di risorse o continuità. Per questo è ancora più importante che il paziente attivo, soprattutto quando rappresenta altri, sia ben supportato da un comitato scientifico, da medici e ricercatori, e sappia collaborare in modo equilibrato. La credibilità del rappresentante passa infatti non solo dalle sue competenze personali, ma anche dalla qualità della rete tecnico-scientifica che lo affianca. Nella nostra esperienza la sinergia e la presenza del presidente della associazione all’interno di gruppi scientifici dedicati, Gruppo IDA Identificazione Deficit Alfa1, Consulta della Pneumologia, ecc., ha permesso di ottenere importanti risultati anche nelle note regolatorie.

Ritiene che la presenza di un comitato scientifico all’interno di un’associazione di pazienti possa rappresentare un valore aggiunto, in particolare nella preparazione del paziente chiamato a partecipare a contesti istituzionali, come ad esempio un’audizione presso un’agenzia regolatoria? E, secondo lei, in che modo questo supporto tecnico-scientifico può contribuire a rendere l’intervento del paziente più efficace e pertinente ai fini del processo decisionale? In parallelo, ritiene importante che tale collaborazione sia accompagnata da adeguate garanzie di trasparenza, per evitare il rischio di possibili conflitti di interesse?

Ritengo che la presenza di un comitato scientifico all’interno di un’associazione di pazienti rappresenti un valore aggiunto significativo, soprattutto quando si tratta di preparare pazienti che vengono coinvolti in contesti istituzionali, come audizioni presso agenzie regolatorie. Questo supporto tecnico-scientifico permette di fornire al paziente una preparazione più completa e consapevole, affinché possa comunicare in modo efficace e fondato, valorizzando non solo la propria esperienza diretta ma anche dati e conoscenze scientifiche rilevanti. Il coinvolgimento di professionisti esperti – siano essi medici, ricercatori o infermieri con competenze specifiche – aiuta a costruire un ponte tra il linguaggio tecnico e quello esperienziale, facilitando così un dialogo più costruttivo con gli interlocutori istituzionali. Questo contribuisce a rendere l’intervento del paziente più incisivo e utile ai fini del processo decisionale, migliorando la capacità delle istituzioni di comprendere il reale impatto delle patologie e delle terapie sulla qualità di vita. Per quanto riguarda la questione del potenziale conflitto di interessi, è importante fare una distinzione netta tra situazioni di reale conflitto e una più positiva convergenza di interessi. Nel caso in cui membri del comitato scientifico siano anche pazienti o caregiver, il loro contributo nasce da un doppio ruolo, che integra la prospettiva professionale con quella esperienziale. Questo può rappresentare un valore aggiunto, purché vi sia trasparenza e che ogni azione sia finalizzata esclusivamente al bene delle persone assistite. In sintesi, più che un conflitto di interessi, si può parlare di una sinergia tra competenze scientifiche e vissuto personale che, se gestita correttamente, rafforza la legittimità e l’efficacia della partecipazione del paziente nei processi decisionali.

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info@osservatoriomalattierare.it (Roberta Venturi)