Oligarchie tecno-finanziarie: chi plasma il futuro - Comin and Partners

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C’è una nuova specie di capitalisti che sta plasmando l’economia globale, e attraverso di essa la politica americana. Questo è rilevante perché, per la prima volta, il declino relativo degli Stati Uniti individuato quasi quarant’anni fa da Paul Kennedy inizia a essere percepito da tutti, inclusi gli stessi americani.
L’America non è più il poliziotto del mondo, non è più garante di un ordine internazionale sul quale aveva fondato la propria egemonia e anche la propria prosperità. E non ha più neppure il monopolio di quel soft power identificato dal politologo appena scomparso Joseph Nye.
Donald Trump impone una logica transazionale ai rapporti internazionali convinto di fare un passo avanti. In realtà certifica la rinuncia degli Stati Uniti a costruire rapporti a somma positiva, grazie alla capacità seduttiva dell’America che suscitava nei partner il desiderio di compiacenza (il soft power del politologo Joseph S. Nye).

In questo sgretolamento della rilevanza geopolitica americana, si riscontra però una primazia – al momento – indiscussa: quella del tecnocapitalismo, evoluzione tutta americana del potere oligarchico.
Shoshana Zuboff aveva identificato qualche anno fa il “capitalismo della sorveglianza” fondato sugli algoritmi, quella nuova forma di business e potere che si reggeva sulla sinergia tra profilazione degli utenti e raccomandazione dei prodotti o servizi.

Adesso siamo arrivati all’evoluzione attesa e temuta, cioè a un tecnocapitalismo che non si limita più a plasmare le traiettorie di azione dei nostri avatar digitali ma che ha l’ambizione di ridefinire il mondo fisico, anche attraverso la politica e – se necessario – la guerra.
Elon Musk è l’esemplare più vistoso di questo tecnocapitalismo: è un industriale, che viene dal concreto mondo dell’ingegneria, dalle automobili e dai razzi spaziali, ma che ha capito che per acquisire il vero potere bisognava fondere l’industria con gli algoritmi, le auto elettriche con i social media, i satelliti con l’intelligenza artificiale.
Grazie a questa intuizione, e ai capitali di cui dispone l’uomo più ricco del mondo, Musk è entrato alla Casa Bianca dalla porta principale, nello Studio Ovale accanto al presidente senza aver mai preso un voto.

È durata poco, meno di sei mesi, ma ha segnato un precedente: il tecnocapitalismo può prendersi la politica. Può farlo nel modo esagerato e umorale, come ha tentato Musk, o con molto meno rumore, vedi le mosse di Peter Thiel: il grande investitore-filosofo, un tempo sodale di Musk, che ha trasformato uno scrittore di memoir sulle sofferenze dei bianchi, J. D. Vance, in un vicepresidente con il potenziale di ereditare il trumpismo.
Ci sono uomini di Thiel in molte posizioni rilevanti dell’amministrazione Trump, a presidiare la guerra dei valori contro la cultura woke, l’evoluzione delle politiche tecnologiche, gli investimenti pubblici in sicurezza dai quali dipendono le prospettive di aziende digitali in campo militare come la sua Palantir.
I tecnocapitalisti hanno una narrazione e i mezzi per imporla.

La narrazione è quella ripetuta da tanti, non soltanto dai trumpiani ma anche da esponenti di altre stagioni politico-culturali, come il progressista Eric Schmidt, già amministratore delegato di Google. Secondo questa narrazione, la sicurezza nazionale degli Stati Uniti dipende dalla competizione per l’intelligenza artificiale generativa.
Chi riuscirà a produrre la prima intelligenza davvero superiore all’uomo in ogni campo ridefinirà il contesto della competizione tra superpotenze: le comunicazioni criptate saranno intelligibili, i satelliti riprogrammabili, le barriere cyber abbattute, l’intera infrastruttura tecnologica delle nostre vite sarà a disposizione di chi si troverà tra le mani questa arma suprema.

È fin troppo evidente il tentativo di costruire assonanze con il progetto Manhattan e la realizzazione della bomba atomica. Con la differenza che all’epoca era – con tutti i suoi limiti – il governo americano tramite l’esercito a gestire il processo, adesso sono imprenditori privati che considerano il governo e la democrazia stessa ostacoli da travolgere.
Il finanziere Marc Andreessen lo ha detto in modo esplicito, in una intervista con Ross Douthat del New York Times: la Silicon Valley si è posizionata su Trump perché non poteva accettare che i Democratici, con Joe Biden o Kamala Harris, provassero a controllare l’evoluzione dell’intelligenza artificiale.
Quell’ingerenza politica avrebbe quindi rallentato la corsa e quindi creato le premesse per un successo della Cina e dunque per la caduta finale dell’America.

C’è sempre una apocalisse incombente a giustificare le azioni del tecnocapitalismo: Peter Thiel si preoccupa dell’Anticristo, Elon Musk delle probabilità anche infinitesimali di una estinzione della specie umana, Sam Altman di OpenAI della f ine del lavoro e dell’implosione di una società resa inutile dall’intelligenza artificiale. Se la posta in gioco è così alta, tutto è lecito, incluso utilizzare un personaggio come Donald Trump che nessuno stima – neppure i collaboratori più servili come Vance – per evitare le regole negli Stati Uniti e sottomettere l’Unione europea con i suoi tentativi di imporre dall’Europa regole di rilevanza globale in campo digitale.

Il tecnocapitalismo ha eliminato ogni discussione sulla ricchezza e la disuguaglianza: essere miliardari non è un problema sociale, non è neppure una conferma della benevolenza divina o l’origine di qualche senso di colpa.
Non è neppure una condizione da giustificare con teorie – smentite ma sempre utili – dello sgocciolamento del benessere verso il basso. La ricchezza e il potere sono imperativi morali, per i tecnocapitalisti sono le premesse per provare a salvare la società da sé stessa e dalle decisioni scellerate che prende attraverso quel vetusto e inefficiente sistema di auto-governo noto come democrazia.

Chi sottovaluta i tecnocapilisti dice: in pochi mesi Trump ha congedato Musk e, ora che i due hanno rotto, può togliergli in ogni momento sussidi e ricavi con un ordine esecutivo. Ma è anche vero che Musk ha sfidato Trump, lo ha insultato, ed è sopravvissuto per raccontarlo, anzi, per provare a distruggerlo, con il progetto di un nuovo partito o almeno di una guerriglia seggio per seggio alle elezioni di metà mandato nel 2026. La sfida tra tecnocapitalismo e populismo è in corso.
La democrazia liberale è la prima vittima del conflitto.

Stefano Feltri è laureato in Economia alla Bocconi. Dopo gli inizi alla Gazzetta di Modena, ha lavorato per Il Foglio, Il Riformista e per il Fatto Quotidiano, dove è stato responsabile dell’economia e poi vicedirettore. Ha conseguito un MBA alla Booth School of Business di Chicago, collaborando con Luigi Zingales e lo Stigler Center. Tornato in Italia, ha fondato e diretto Domani fino al 2023. Oggi cura la newsletter Appunti, scrive per varie testate e conduce il programma-podcast t su Radio3. È professore a contratto all’Università di Bologna.

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