Maranathà: significato, etimologia e uso nella preghiera

Compatibilité
Sauvegarder(0)
partager

Maranathà: la parola che dice “il Signore viene”

C’è una parola del cristianesimo che, detta ad alta voce, sembra quasi “maranaira”.

È Maranathà.
Una formula breve, antichissima, che contiene un modo diverso di guardare al tempo: passato, presente e futuro che si tengono per mano.

Che cos’è Maranathà, in parole semplici

Maranathà è un’espressione in aramaico, la lingua parlata da Gesù.
È arrivata fino a noi senza essere tradotta: san Paolo la lascia così com’è in 1 Corinzi 16,22 e la Chiesa delle origini la usa nella preghiera.

È una invocazione.
Un grido breve, quasi un sospiro:

  • può voler dire: «Signore nostro, vieni!»

  • oppure: «Il Signore nostro viene / è venuto».

Dentro questa ambivalenza c’è già tutto il cuore della fede cristiana:

Cristo è venuto, viene, verrà.

Le radici aramaiche

La parola è formata da due elementi aramaici:

  • maran(a) = «nostro Signore»

  • tha / atha = «vieni» oppure «è venuto / viene».

Nei manoscritti antichi non c’erano spazi tra le parole.
Per questo il testo greco può essere letto in due modi:

  • maràn athà → «il Signore nostro viene / è venuto»

  • maranà thà → «Signore nostro, vieni!»

Gli studiosi non sono del tutto d’accordo su quale sia la lettura “giusta”.
Ma, in fondo, le due letture non si escludono:

il Signore è già venuto, per questo possiamo chiamarlo perché venga ancora.

Dove compare nella Bibbia

1 Corinzi 16,22: la parola che Paolo non traduce

Alla fine della Prima lettera ai Corinzi, Paolo scrive:

«Se qualcuno non ama il Signore sia anatema. Maranathà.»

Qui l’apostolo non traduce l’espressione. Segno che la comunità la conosceva già come formula fissa di preghiera, forse usata nella liturgia eucaristica delle prime comunità.

È come se, in mezzo al testo greco, rimanesse un piccolo frammento di lingua di Gesù. Un residuo vivo delle sue parole.

Il legame con l’Apocalisse

Alla fine dell’Apocalisse troviamo, in greco, un’invocazione molto vicina:

«Amen. Vieni, Signore Gesù!» (Ap 22,20)

Molti studiosi vedono qui il corrispettivo greco di Maranathà: la stessa attesa, lo stesso desiderio del ritorno del Signore.

Maranathà nella liturgia e nella tradizione cristiana

La Didaché e la tavola dei primi cristiani

La Didaché, uno dei testi cristiani più antichi fuori dal Nuovo Testamento, usa Maranathà nelle preghiere dopo la Comunione:

«Venga la grazia e passi questo mondo… Maranathà. Amen.»

Qui la parola è legata a due movimenti:

  • ringraziamento per la presenza del Signore nell’Eucaristia

  • attesa del suo ritorno alla fine dei tempi.

È una parola che sta tra l’altare e il futuro.
Tra la mensa di oggi e il compimento della storia.

L’uso nella Chiesa di oggi

Nella tradizione cattolica, Maranathà torna spesso soprattutto:

  • nel tempo di Avvento, come invocazione del Signore che viene;

  • in canti, preghiere, ritiri spirituali centrati sull’attesa e sulla speranza.

È una parola che non si è consumata.
Resta essenziale, quasi nuda.
Proprio per questo continua a essere usata.

Una parola che tiene insieme tre tempi

A seconda di come la leggi, Maranathà contiene tre dimensioni.

Passato

«Il Signore è venuto»
L’Incarnazione, la vita di Gesù, la sua Pasqua.

Presente

«Il Signore viene»
La sua presenza nella comunità, nella Parola, nei sacramenti, nei poveri, nelle pieghe della storia.

Futuro

«Signore, vieni!»
Il desiderio del suo ritorno. La speranza che la storia non sia una linea spezzata, ma trovi un compimento.

In una sola parola, il credente dice:

«Tu sei venuto, tu vieni, vieni ancora.»

Perché Maranathà parla ancora oggi

Anche se non sei un teologo, questa parola tocca qualcosa di molto umano:

  • è il grido di chi spera mentre tutto sembra fermo

  • è il respiro di chi crede che la storia non sia solo caos

  • è il sussurro di chi attende una presenza che salva, non un trucco che distrae

Nel linguaggio del quotidiano, potremmo tradurla così:

  • «Non lasciarci soli.»

  • «Non sparire dalla nostra storia

  • «Entra anche qui, adesso.»

Maranathà è una parola di attesa attiva: non invita a scappare dal mondo, ma a viverlo pensando che non è abbandonato.

Come usarla nella preghiera personale

Qualche idea concreta:

  • come giaculatoria: una frase breve da ripetere nel silenzio

  • come chiusura di una giornata difficile:

    «Signore, oggi è stato pesante. Maranathà.»

  • come parola-ponte nell’Avvento, quando il calendario scorre e tu senti il bisogno di un senso più profondo

  • come invocazione di fronte alle notizie che fanno male: guerre, ingiustizie, violenze, storie che feriscono

È una parola breve. Ma può diventare una piccola ancora in mezzo al rumore.

Conclusione: una parola da custodire

Maranathà è una delle tracce più antiche del cristianesimo delle origini.

Dentro quei suoni un po’ strani, che ci ricordano persino una “maranaira”, si nasconde un cuore semplicissimo:

«Signore, non smettere di venire verso di noi.»

Tenere viva questa parola è un modo per non abituarsi al cinismo. Per dire, anche oggi, con la lingua di ieri: la speranza non è fuori tempo massimo.

© copyright 2025 – tutti i diritti sono riservati.

Consiglio di Acquisto

L’eco del silenzio. Frammenti sparsi.

Coordonnées
Red