Un nuovo studio rivela il meccanismo con cui il virus di Epstein-Barr può innescare la malattia. L’intervista all’esperto per capire come ci si cura oggi
Per anni l’associazione tra il virus di Epstein-Barr (EBV) e il lupus eritematoso sistemico (LES) è stata osservata su base epidemiologica e clinica. Oggi, per la prima volta uno studio pubblicato su Science spiega il meccanismo biologico che collega il virus all’insorgenza della malattia autoimmune. Un salto in avanti notevole, considerata la complessità metodologica del lavoro. “La novità importante - spiega Luca Iaccarino, reumatologo dell’Azienda Ospedale Università di Padova - è aver finalmente compreso come il virus riesce a spostare l’attività di alcune cellule B verso un comportamento patologico tipico del lupus”.
Il virus di Epstein–Barr, noto per la sua capacità di rimanere nelle cellule B, sembra “riprogrammarne” alcune, in particolare quelle autoreattive, che esistono in tutte le persone che hanno incontrato il virus. Ma nei soggetti predisposti al lupus — una piccola minoranza, dato che l’EBV colpisce oltre il 90% della popolazione — il virus riesce ad amplificare questa autoreattività. Le cellule B infettate arriverebbero a presentare materiale antigenico in modo anomalo, innescando l’attivazione delle cellule T e la cascata autoimmunitaria che porta alla malattia.
DIAGNOSI: TEMPI PIÙ RAPIDI, MA SERVE IL SOSPETTO CLINICO
Se fino agli anni Ottanta passavano in media cinque anni dall’esordio dei sintomi del lupus alla diagnosi, oggi il percorso è molto più rapido: in alcuni casi bastano anche alcune settimane. È merito della maggiore sensibilità diagnostica, dei test anticorpali ormai diffusi in molti laboratori e di una crescente attenzione ai segnali precoci.
“Il primo ‘filtro’ è il medico di medicina generale”, sottolinea Iaccarino. “È lì che deve scattare il sospetto, altrimenti il paziente difficilmente arriva subito al reumatologo”. I campanelli d’allarme che possono indirizzare verso un approfondimento comprendono fenomeno di Raynaud, stanchezza o febbricola immotivata, dolori articolari che persistono senza spiegazione o gonfiore delle mani e delle articolazioni. Questi sintomi diventano particolarmente rilevanti nelle donne giovani, la categoria epidemiologicamente più esposta allo sviluppo della malattia.
TERAPIE PER IL LUPUS: UN DECENNIO DI SVOLTA
“Gli ultimi cinque-sei anni rappresentano una fase entusiasmante per la terapia del lupus, con un numero crescente di trial clinici che finalmente hanno raggiunto risultati positivi”, spiega Iaccarino. Per molto tempo gli studi non avevano dato risultati soddisfacenti: un esempio è il rituximab, che nel trial clinico non mostrò efficacia significativa a causa di un disegno di studio in cui il placebo risultò sorprendentemente efficace.
Oggi il panorama è molto diverso. Tra le terapie già disponibili ci sono belimumab, un anticorpo monoclonale che blocca il fattore di proliferazione dei linfociti B e che ormai è in uso da oltre dieci anni, anifrolumab, diretto contro l’interferone, e voclosporina, un inibitore della calcineurina di terza generazione che riduce molto gli effetti collaterali rispetto alle formulazioni più vecchie come la ciclosporina.
All’orizzonte sta arrivando obinutuzumab, un anticorpo di seconda generazione simile a rituximab ma più efficace nella deplezione delle cellule B. “Sono tanti gli studi in tutto il mondo che riguardano nuove molecole per trattare il lupus, e a diversi trial partecipiamo anche noi”, precisa Iaccarino. “Lo studio su obinutuzumab, ad esempio, ha raggiunto l’endpoint primario nella nefrite lupica, e ci si aspetta la sua approvazione entro pochissimi mesi”. Un secondo studio su questo farmaco, dedicato alle forme di lupus non renali, ha da poco raggiunto il proprio endpoint primario, aprendo la strada a un’indicazione più ampia.
Nel frattempo proseguono gli studi su molecole già note in altre patologie. Tra le diverse sperimentazioni attive presso l’Ospedale di Padova c’è quella su upadacitinib, già approvato per l’artrite reumatoide ma promettente anche nel lupus, e sono attivi anche gli studi su ianalumab, un altro anticorpo monoclonale mirato alle cellule B.
CAR-T E ANTICORPI INGEGNERIZZATI: IL FUTURO È GIÀ INIZIATO
Oltre agli anticorpi monoclonali, negli ultimi anni si è aperta una fase completamente nuova con le terapie cellulari. Le cellule CAR-T, note per l’uso nelle malattie ematologiche, sono già state sperimentate anche nel lupus. L’obiettivo è ingegnerizzare cellule T capaci di eliminare selettivamente le cellule B. I primi risultati sono sorprendenti: “Sembra che si riesca a resettare il sistema immunitario”, spiega Iaccarino. “Le nuove cellule che nascono non favoriscono più il lupus, e i pazienti trattati sembrano quasi guariti”. Il limite principale è il costo, che si aggira intorno al mezzo milione di euro, oltre alla necessità di ricovero in ambiente altamente specializzato e di chemioterapia preparatoria. Finora nel mondo sono stati trattati meno di cento pazienti.
Accanto alle CAR-T sta emergendo una seconda opzione, sebbene siamo ancora a uno stadio assolutamente preliminare: gli anticorpi bispecifici ingegnerizzati, in grado di collegare una cellula T e una cellula B e indurre la distruzione di quest’ultima senza ricorrere alla chemioterapia. I dati sono tuttavia ancora preliminari e molto limitati.
IL RUOLO DEI PAZIENTI: MONITORAGGIO E ADERENZA TERAPEUTICA
Per quanto l’innovazione proceda veloce, un punto fermo resta la necessità di monitorare i sintomi del lupus e rispettare le terapie prescritte. La cosiddetta compliance, ossia l’aderenza alla terapia prescritta dal medico, è cruciale per tenere davvero a bada la malattia. “Negli ultimi mesi, a Padova si misurano regolarmente i livelli ematici di idrossiclorochina: i dati mostrano che il 14% dei pazienti ha livelli bassissimi, compatibili con una scarsa aderenza, e un altro 20% è sotto la soglia terapeutica. Così facendo - conclude Iaccarino - ci si espone alla riacutizzazione della malattia”.