COP30: dalla leadership al brokerage, la diplomazia climatica dell’UE tra mitigazione e strategia delle risorse - I-Com, Istituto per la Competitività

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La città brasiliana di Belém, alle porte della foresta amazzonica, ha ospitato per due settimane la trentesima Conferenza delle Parti (COP30) sul clima delle Nazioni Unite (UNFCCC).
Tra nuove geometrie mondiali che intersecano clima, energia e commercio e un crescente protagonismo del Sud globale, la COP ha messo in luce una trasformazione cruciale: il passaggio dell’Unione europea da attore-leader a facilitatore strategico nei negoziati sul clima, risultato dell’intreccio tra dinamiche politiche interne europee e nuove realtà globali.

IL NUOVO RUOLO DELL’UNIONE EUROPEA

In questo contesto l’Unione europea (UE) si è trovata a ricoprire un ruolo molto difficile: l’assenza degli Stati Uniti, annunciata dal presidente Trump, ha minato la coesione del fronte occidentale e compromesso la credibilità del gruppo di economie avanzate. D’altra parte, l’UE rivendica una posizione di primo piano nelle ambizioni climatiche e nella pianificazione strutturale della transizione energetica.
Ne emerge un attore internazionale di grande rilievo, un punto di riferimento ancora valido per l’azione climatica, ma consapevole che le modalità di gestione della diplomazia climatica sono cambiate e che, di conseguenza, anche il modo in cui l’UE stessa opera negli spazi negoziali è mutato.
La postura europea alla COP30 si è costruita su due direttrici parallele: da una parte, un’attività costante ai tavoli negoziali per ribadire la necessità di riduzione delle emissioni e delle azioni decise e ambiziose di mitigazione. Dall’altra, una transizione dal ruolo di leader a quello di facilitatore, non più traino dell’azione globale per il clima ma cerniera di un sistema multipolare, dove le leve della strategia climatica – risorse, capacità industriali e catene del valore strategiche – si trovano spesso al di fuori dei confini europei.

LE DINAMICHE INTERNE TRA AMBIZIONI CLIMATICHE E COMPROMESSI POLITICI

Il grande sforzo politico dell’UE per portare la transizione energetica in ogni campo – dall’industria hard-to-abate al settore automobilistico – è stato riflesso nella difficile produzione del Nationally Determined Contribution (NDC), documento chiave creato nell’ambito dell’Accordo di Parigi che ogni paese deve ciclicamente presentare per attestare le ambizioni climatiche crescenti. Il NDC europeo per il periodo successivo al 2030 è stato presentato a pochissimi giorni dall’inizio della COP, dopo che la decisione finale è stata rinviata molte volte, a testimonianza delle importanti divergenze tra gli Stati membri. Tuttavia, l’ambizione europea nell’ambito della mitigazione è stata confermata dagli obiettivi di riduzione delle emissioni, fissati al 66-72% entro il 2035 rispetto al 1990. Come mostra la Figura 1 le politiche dichiarate dai paesi nei NDCs ridurrebbe la traiettoria delle emissioni globali del 12%, creando un divario importante tra uno scenario di sforzi collettivi e uno senza NDC, che porterebbe dal 20 al 48% in più di emissioni rispetto al 2019.

Figura 1: Proiezioni delle emissioni globali al 2035 con e senza gli NDC dell’Accordo di Parigi

Fonte: UNFCCC (2025)

NUOVI MOSAICI GLOBALI DI EMISSIONI E TRANSIZIONE

Alla luce di queste dinamiche, l’UE ha orientato la sua diplomazia climatica verso un approccio di mediazione e coordinamento: ha supportato la proposta da parte della Colombia di una roadmap volontaria per l’uscita dai combustibili fossili e si è attivata per l’avvio di iniziative plurilaterali come la Belém Mission to 1.5°C e il Global Implementation Accelerator come esempi di sforzo coordinato per l’implementazione.
In questo senso, l’Unione ha cercato di modellare una nuova funzione: non più solo “leader ambientale”, ma facilitatore di alleanze, intermediario tecnico-politico e promotore di processi – anche se meno ambiziosi sul piano normativo.
Questo cambio di approccio riflette una consapevolezza sui nuovi equilibri mondiali: l’azione climatica globale non può più essere guidata da un unico polo, ma richiede un ripensamento strategico alla luce di un mutato contesto di intersezioni (spesso sovrapposte) tra paesi sviluppati, emergenti, vulnerabili e produttori di risorse.
Infatti, se le responsabilità storiche gravano sugli Stati Uniti, primo paese per emissioni cumulative dall’epoca industriale fino al 2024, il maggior emettitore in numeri assoluti oggi è la Cina, che da sola occupa il 30% del totale (Figura 2). Dalla firma dell’Accordo di Parigi nel 2015 la Cina è responsabile di oltre il 60% dell’aumento delle emissioni globali di CO2, mentre le emissioni degli Stati Uniti e dell’Unione europea sono diminuite.

Figura 2: Quota di emissioni cumulative globali di CO2 dal 1750 al 2024, per Paese (a sinistra), e quota di emissioni CO2eq nel 2024, per Paese (a destra), prime 8 posizioni sul totale. 

Fonte: Rielaborazioni I-Com su dati Global Carbon Budget e Commissione Europea (2025)

Contemporaneamente, però, è proprio Pechino ad essere il primo attore globale per capacità manifatturiera di tecnologie pulite (Figura 3): si tratta di tecnologie essenziali per la transizione energetica su cui l’Unione europea fa un affidamento quasi esclusivo – basti ricordare che nel 2024 il 98% di pannelli fotovoltaici e il 43% delle turbine eoliche importati in UE provenivano dalla Cina. L’apparente contraddizione tra l’enorme quota di emissioni globali cinesi e il primato industriale nella produzione di tecnologie per la transizione in realtà è la cartina al tornasole di un nuovo mosaico energetico globale, in cui attori con un peso specifico non indifferente si muovono tra picchi di emissioni, catene del valore strategiche e nuove ambizioni climatiche.

Figura 3: Quota di produzione globale di clean technologies, per Paese (2024).

Fonte: Rielaborazioni I-Com su dati IEA, “Advancing Clean Technology Manufacturing” (2024)

IL NODO GEOSTRATEGICO: MITIGAZIONE E RISORSE

La COP30 ha fornito un nuovo spazio per l’azione diplomatica europea, non più modulata sulla leadership normativa, bensì sulla costruzione di partnership strategiche con i paesi che detengono gli asset necessari alla transizione energetica mondiale.
Già nell’ambito dell’iniziativa Global Gateway, Bruxelles aveva consolidato accordi con Stati chiave dell’America Latina come Brasile e Cile, proponendo schemi di cooperazione che combinano investimenti per infrastrutture elettriche transfrontaliere, corridoi commerciali per materie prime critiche e garanzie sulla sostenibilità delle filiere.
Questa strategia non risponde solo a esigenze negoziali, ma si inserisce in un disegno più ampio che intreccia sicurezza energetica, diplomazia delle risorse e posizionamento dell’Unione nelle supply chains globali. In un contesto caratterizzato da catene del valore concentrate e crescenti competizioni tecnologiche, la costruzione di partenariati resilienti diventa parte integrante della proiezione strategica europea.
D’altro canto, durante la COP30, l’UE ha negoziato con attenzione i dossier più sensibili per i partner del Sud globale: primo fra tutti l’impatto del CBAM, il meccanismo europeo di tassazione di carbonio alle frontiere, visto come una misura commerciale unilaterale protezionistica dannosa per le economie emergenti. In entrambi i casi l’obiettivo è stato chiaro: difendere fermamente gli strumenti climatici europei, ma allo stesso tempo ridurre la percezione di unilateralità, costruendo un’agenda di mitigazione il più possibile vicendevolmente vantaggiosa.

CONCLUSIONI

La diplomazia climatica europea, espressasi recentemente alla COP30, sta entrando in una fase in cui le capacità di mediazione e di inserimento nelle dinamiche strategiche dell’energia e del clima contano quanto – se non più – della leadership normativa. In un contesto caratterizzato dall’assenza degli Stati Uniti, dal crescente peso negoziale e commerciale del Sud globale e dall’ascesa industriale della Cina a Belém, l’UE ha scelto una strategia fondata su coalizioni, partenariati e coordinamento politico per allineare ambizione climatica e interessi industriali. Pur mantenendo elevati livelli di ambizione in materia di mitigazione, Bruxelles ha riconosciuto che la transizione energetica si gioca tanto nei testi negoziali quanto lungo le catene del valore e nelle geografie delle risorse.
La sfida dei prossimi anni sarà trasformare questo ruolo di “broker climatico” in un vantaggio strategico, non tanto imponendo regole, quanto modellando standard, sostenendo processi di attuazione comuni e promuovendo l’adozione di strumenti — tecnici, normativi, finanziari — compatibili con la sua agenda climatica interna. Un tale cambio di postura internazionale – meno prescrittiva e più cooperativa – potrebbe rappresentare un’opportunità strutturale per l’Unione, offrendo la possibilità da una parte di garantire una diversificazione delle risorse per la transizione e d’altra parte di assicurare un’implementazione reale e condivisa delle ambizioni climatiche globali.

Coordonnées
Beatrice ALA