Malattia di Pompe: studio italiano approfondisce le cause genetiche della patologia

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Dottor Paolo Colomba (IRIB-CNR): “Necessaria una stretta collaborazione tra clinico e genetista per ridurre il ritardo diagnostico e velocizzare la presa in carico dei pazienti”

Una delle creature più fantasiose della mitologia greca è senza dubbio l’idra: leggendario mostro, dalle fattezze di serpente, dotato di innumerevoli teste. Combatterlo e sconfiggerlo è stata una delle dodici fatiche di Ercole. Le molteplici facce con cui si presenta la malattia di Pompe potrebbero ricordare questa creatura mitologica, ma non è necessario essere Ercole per cercare di batterla. Ne sono convinti i ricercatori del Centro di Ricerca e Diagnosi Malattie da Accumulo Lisosomiale dell’IRIB-CNR di Palermo. “Ci occupiamo della malattia di Pompe dal 2018 e riceviamo ogni anno centinaia di campioni di sangue provenienti da tutta Italia, sia per motivi di ricerca che di conferma diagnostica”, spiega il dottor Paolo Colomba, coordinatore delle attività del gruppo diretto dal prof. Giovanni Duro. “La disponibilità di materiale biologico ci ha permesso, nel nostro recente studio pubblicato sulla rivista International Journal of Molecular Science, di fare il punto della situazione su questa patologia multiforme e sottodiagnosticata”.

LA PATOLOGIA

La malattia di Pompe, nota anche come glicogenosi di tipo II, è una rara patologia neuromuscolare da accumulo lisosomiale, debilitante e spesso mortale. È dovuta al deficit dell’enzima alfa-glucosidasi acida (GAA), responsabile della degradazione del glicogeno, polisaccaride di riserva del glucosio (zucchero). A causa di questa carenza enzimatica (totale o parziale), il glicogeno si accumula nei lisosomi cellulari con danni irreversibili a livello di diversi organi e tessuti: principalmente cuore e muscoli scheletrici e respiratori. “È una malattia dalle molteplici sfaccettature e dai risvolti potenzialmente drammatici”, racconta la dott.ssa Marta Moschetti, ricercatrice del gruppo e responsabile del progetto sulla malattia di Pompe. “Soprattutto nella sua forma a esordio precoce (Infantile-Onset Pompe Disease, IOPD) è caratterizzata da sintomi molto gravi, capaci di dare esito fatale entro il primo anno di vita del bambino: cardiomiopatia ipertrofica, macroglossia [ingrossamento della lingua N.d.R.], epatomegalia, difficoltà respiratorie e marcata ipotonia, per cui i piccoli pazienti assumono il caratteristico aspetto a ‘bambola di pezza’ (in inglese “floppy baby”)”.

La forma a esordio tardivo (Late-Onset Pompe Disease, LOPD), invece, è generalmente meno aggressiva ma va comunque trattata tempestivamente, per evitare gravi complicanze respiratorie e motorie. Spesso compare in modo subdolo, con un esordio caratterizzato da sintomi aspecifici e sovrapponibili a quelli di altre patologie più comuni, come affaticamento, debolezza muscolare, affanno e lieve difficoltà respiratoria, specialmente di notte. La sintomatologia, però, è progressiva e diventa via via sempre più invalidante. Individuare correttamente la malattia diventa ben presto una corsa contro il tempo, per poter iniziare una terapia mirata prima che il danno d’organo diventi irrecuperabile. Oggi, infatti, la disponibilità di trattamenti efficaci per la patologia rappresenta un ulteriore incentivo ad accelerare i tempi della diagnosi.

LO STUDIO

Sebbene sia causata dalla carenza di un singolo enzima, la malattia di Pompe si manifesta con un’ampia gamma di fenotipi clinici e con una notevole variabilità nella velocità di progressione e nel grado di coinvolgimento dei vari organi. Questa eterogeneità, unita alla rarità della patologia, concorre al ritardo diagnostico. “La natura multiforme della malattia di Pompe è probabilmente dovuta al numero estremamente elevato di mutazioni patogenetiche del gene GAA e al loro diverso tipo (nonsenso, missenso, frame-shift), nonché alla loro reciproca interazione con il resto del genoma”, spiega la dott.ssa Moschetti. Ad oggi, sono state associate a questa patologia circa 911 alterazioni genetiche. “Purtroppo, non siamo ancora riusciti a individuare una corrispondenza genotipo-fenotipo, per cui non sappiamo a quali mutazioni siano associate le forme più aggressive di malattia di Pompe né a quali alterazioni nel gene GAA corrispondano determinati sintomi”, dichiara la dott.ssa Moschetti. “Continuare a studiare la patogenetica di questa patologia e tentare di individuare quali altri fattori potrebbero influenzare la sintomatologia, quindi, sono azioni imprescindibili se si vuole fornire un aiuto concreto al processo diagnostico”, sottolinea il dott. Colomba.

Grazie ai campioni raccolti negli ultimi anni, siamo riusciti a valutare l’attività enzimatica di 2934 persone”, racconta il coordinatore. “Nella maggior parte dei casi (2489) abbiamo trovato valori di alfa-glucosidasi nella norma: questo esclude automaticamente che si tratti di malattia di Pompe. Sui 445 campioni la cui attività enzimatica risultava ridotta, abbiamo eseguito un’indagine genetica. Di questi, 105 presentavano valori estremamente bassi, inferiori a 3nmol/ml/h. È stato all’interno di questa seconda coorte che abbiamo individuato i 39 pazienti che presentavano le mutazioni caratteristiche della patologia”. La malattia di Pompe, infatti, è una condizione ereditaria a trasmissione autosomica recessiva: questo significa che per manifestare la patologia è necessario che l’individuo presenti una mutazione in omozigosi, che coinvolge entrambe le copie del gene GAA, oppure due in eterozigosi composta (una mutazione su ciascun cromosoma omologo).

Nella malattia di Pompe le alterazioni genetiche sono molto eterogenee: possono essere mutazioni puntiformi, che influenzano la stabilità e la funzionalità dell’enzima, o vere e proprie delezioni/inserzioni (aggiunta o rimozione di nucleotidi della sequenza). “Per questa ragione - spiega il dott. Colomba - durante la nostra ricerca, per effettuare l’indagine genetica, non abbiamo utilizzato solo il sequenziamento di Sanger, tecnica classica in grado di individuare le mutazioni puntiformi, ma anche l’analisi MLPA (Multiplex Ligation-dependent Probe Amplification), capace di rilevare anche grosse delezioni all’interno del gene. In questo modo abbiamo individuato cinque mutazioni mai descritte prima in letteratura, il cui coinvolgimento deve essere ancora chiarito, e altre ventidue varianti genetiche di significato incerto (VUS), nomenclatura che si utilizza per quelle mutazioni che, allo stato attuale, non possono essere considerate responsabili della malattia”.

Lo studio genetico, inoltre, ha consentito di fissare a 3nmol/ml/h il valore soglia di alfa-glucosidasi sotto il quale si può iniziare a sospettare che il paziente sia affetto dalla malattia di Pompe. “Infine - evidenzia la dott.ssa Moschetti - i risultati della nostra ricerca hanno ulteriormente confermato la necessità di procedere sempre con un’attenta valutazione dei familiari del paziente. Molto spesso, infatti, soprattutto tra fratelli si riscontrano le stesse alterazioni enzimatiche, a volte prima che ci sia una sintomatologia conclamata”. Individuare precocemente queste persone permette di osservarne il decorso clinico, intercettare i primi danni e, se necessario, iniziare un trattamento farmacologico, principalmente con terapia enzimatica sostitutiva, capace di stabilizzare la progressione della patologia.

Questa ricerca - conclude il dott. Colomba - evidenzia l’importanza della consulenza genetica e dei test enzimatici per evitare errori o ritardi nella diagnosi della malattia di Pompe”. Inoltre, questo studio ha l’indubbio merito di sottolineare la necessità di una stretta collaborazione tra clinico e genetista: solo così si può ottenere una valutazione complessiva del quadro clinico del paziente e dei suoi familiari, consentendo una presa in carico tempestiva e ben strutturata delle persone affette dalla malattia di Pompe. “Lavorare insieme è l’unico modo per battere una patologia dalle mille facce senza essere Ercole”, confermano i ricercatori.

Recapiti
info@osservatoriomalattierare.it (Giulia Virtù)