Quando ci si pone difronte al concetto di povertà, che sia per un’analisi o per un tentativo concreto di contrasto al fenomeno, si corre il rischio di fermarsi a un bivio cruciale. Da un lato ci spinge verso una facile lettura e un’immediata risoluzione, ovvero la povertà è mancanza dell’essenziale e quindi recuperabile attraverso una dote, una elargizione, beneficienza; dall’altro, soprattutto se si cerca di osservare con occhio più attento, si scorge una montagna imponente formata da una moltitudine di significati e di fattori interconnessi, su più dimensioni, che si mescolano in un mosaico vivido e complesso. Questa montagna, se non affrontata con strumenti adeguati e giusti presupposti, rischia di rimanere inviolata, non percorribile, come una sorta di mostruoso nemico sempre alle nostre spalle.
Che la povertà dunque non sia semplicemente una mancanza, ma piuttosto una condizione sociale caratterizzata da assenza di risorse, scelte, sicurezza, potere, giustizia e molto altro, è l’assioma fondamentale da cui il CNCA inizia una scalata impervia.
Con il progetto “Perla. Pratiche Per L’Antifragilità” si parte dallo studio dei fenomeni, dei territori, delle realtà presenti e delle risorse già attive, per costruire e incrementare insieme alla rete attiva strumenti adatti e innovativi, con l’intento di approcciare e contrastare da più fronti, in un’ottica multidimensionale e multi operativa, il fenomeno povertà. Fondamentale quindi calarsi all’interno della marginalità, delle vulnerabilità e separare i focus attenzionali per delle attivazioni mirate: la povertà economica, la povertà abitativa, la povertà educativa e la povertà digitale – le diverse dimensioni affrontate nel progetto – si delineano come i campi nei quali con maggiore presenza, e si spera con maggiore impatto, il CNCA ha deciso di lavorare, come sempre con grande slancio e grande partecipazione e coinvolgimento di più attori possibili di tutto il territorio italiano.
Il segmento affrontato in questo articolo riguarda la povertà economica, la privazione di base alla quale l’istinto dell’operatore si rivolge in primis, non solo perché più lampante, evidente, ma anche più aggredibile con gli strumenti più comuni che storicamente la rete del terzo settore ha strutturato in servizi (accoglienze, mense, distribuzioni, ecc.
A questo proposito è corretto fare riferimento a un antico adagio aggiornato: “Se invece di donarti il pesce, ti insegno a pescare e magari ti fornisco tutta l’attrezzatura?”. Insomma, la classica metafora che ci spinge alla ricerca di attivazione personale, di formazione, di ricerca lavoro e di inserimento lavorativo.
L’equazione quindi si fa parecchio più complessa, da semplice riempimento di un vuoto a una serie di varianti tortuose. Proprio cosi le varianti dell’equazione di sopra appaiono di facile lettura e applicazione quando coloro che si rivolgono al mondo del lavoro partono da basi solide, studi, una famiglia stabile e una dotazione economica adeguata una famiglia stabile e una dotazione economica adeguata, ma quando ad affrontare questo percorso deve essere un beneficiario di un progetto, quasi sempre con condizioni di partenza svantaggiose, senza il giusto approccio e il giusto team di sostegno, le buone iniziative produrranno delle traiettorie monche senza un vero risultato positivo.
Elemento fondamentale per sviluppare lo strumento base di risoluzione della povertà economica, ovvero “il lavoro”, diviene un approccio multi agenzia e un team multidisciplinare, che pongono fisicamente al centro di una serie di servizi, di attivazioni, di tutoraggi… la persona. Attorno a una persona beneficiaria di uno qualsiasi dei nostri progetti, ogni capacità e ogni servizio sviluppato devono ruotare all’interno di una sorta di filiera operativa differenziata, ma canalizzata verso un unico obiettivo.
Proviamo a considerare il caso più lampante di marginalità estrema: una persona senza dimora, senza risorse di alcun tipo. Dopo i classici interventi definibili a bassa soglia (accoglienza temporanea, igiene, sostegno alimentare, vestiario…) si attiverà un team socio sanitario che parallelamente a un team di aiuto legale riprodurrà “la burocrazia”, ovvero tutto l’aspetto dei diritti legati ai documenti. Intanto da un altro lato si attiverà, attraverso un case manger, il quick assessement, facendo incontrare le risorse personali, le risorse del territorio, le richieste, le propensioni e i desideri della persona. Questa sopra descritta è la presa in carico integrata tra pubblico e privato dove a gestire e veicolare gli strumenti del pubblico si alternano operatori del privato sociale e istituzioni. Sembra assurdo, ma per inserire una sola persona “vulnerabile” in un sistema attivo di lavoro sono necessarie più di dieci figure professionali e non un solo bravo operatore capace di far tutto. Ad esempio, il team multidisciplinare della Cooperativa On the Road consta di: assistente sociale, psicologo, operatore legale, avvocato, educatore, tutor per l’orientamento e tutor per l’inserimento, mediatore, case manager, operatore pari o mentore. Può una sola progettualità prevedere tutto questo? Un’attivazione simile nasce sicuramente da una necessità che nel corso degli anni ha però incontrato una serie di possibilità, all’interno di più progetti. Mutuando dalla matematica i principi base delle teorie dei gruppi, possiamo immaginare di far coincidere parti di alcuni insiemi che condividono caratteristiche simili o uguali. Insomma, per tornare a un linguaggio prettamente socio-progettuale, per creare il team multidisciplinare di inserimento lavorativo dobbiamo sviluppare le trasversalità, puntando a innalzare all’interno di una struttura di cooperativa o associazione del terzo settore, l’area lavoro sopra definita al pari di aree di lavoro strutturate, come il segmento amministrativo, le risorse umane, ecc.
Ogni movimento verso la persona che non sia esclusivamente di assistenza o presa in carico sanitaria totalizzante, a oggi prevede l’empowerment, ovvero una conquista di diverse capacità sociali come la consapevolezza di sé, del controllo delle proprie scelte, delle proprie azioni, di un’autonomia ricostruita. Ma empowerment significa soprattutto acquisizione di “potere” da rivolgere alle scelte che si palesano durante i percorsi. Scegliere con il potere di farlo in autonomia disegna un futuro senza sfruttamento, senza pericoli e senza sliding doors tra salute, vita ed economia.
Il team multidisciplinare si costituisce fisicamente al centro delle operazioni di secondo livello alla persona, prelevando operatori e skills da progetti sui fondi povertà adatti alle prime fasi di assessment, inglobando esperti educatori per l’alfabetizzazione economico finanziaria, servendosi di esperti di immigrazione e operazioni burocratico-legali affiancati da mediatori, creando figure innovative con i peer operator che nei Job Club assumono le figure di mentor. Questa del Job Club è una dinamica sviluppatasi negli anni Novanta, tornata in auge con le varie crisi post 2010 del mondo del lavoro, e si nutre di quei concetti di mutuo aiuto trasferendoli ai giorni d’oggi anche attraverso i social e i canali di comunicazione digitale. All’interno del Job Club operatori pari, mentori e persone beneficiarie dei progetti sono loro stessi motori di ricerca e promotori di condivisioni come informazioni, annunci, consigli, nel tentativo di rendere le operazioni legate al mondo del lavoro più orizzontali e affrontabili, nella speranza di assottigliare il più possibile la visione verticale di un lavoro che ci sceglie se adatti o adattabili e di concepire e avvicinarsi a un lavoro che la persona sceglie perché in linea con i propri desideri, le proprie capacità, le proprie volontà ma anche con le reali necessità.
Un esempio straordinario di quanto detto sopra e della stupefacente capacità di trasportare elementi leggeri per far vivere la ricerca lavoro a tutti i beneficiari, qualsiasi sia la loro origine e condizione sociale, sono gli speed date lavorativi. Una serie di incontri rapidi, nella modalità degli incontri sociali dei single alla ricerca di compagni e compagne, dove le aziende di un determinato territorio che richiedono forza lavoro accolgono a turno in postazioni dedicate, nello stesso luogo e nella stessa giornata, tutti i candidati disponibili.
È subito importante sottolineare che questi esperimenti hanno prodotto risultati importanti, superando di parecchio le percentuali di riuscita dei classici progetti di inserimento lavorativo.
Questo raccontato non è sicuramente l’unico esempio possibile, ma rappresenta non di certo un approdo finale alle dinamiche legate al lavoro, ma un bellissimo inizio di una serie ancora molto lunga e complessa di attivazioni necessarie a costruire un reale momento risolutivo. Non per essere disfattisti o cautelativi, ma senza un reale programma di tutela e accompagno che prosegua almeno per un anno a seguito di un inserimento, i casi di ricaduta – passatemi la definizione prochaskiana – sono tantissimi. Questo diviene un elemento da tenere in massima considerazione, poiché tentativi fallimentari, licenziamenti per non adeguata posizione lavorativa, allontanamenti per manifeste condizioni di svantaggio ed inappropriatezza igienico sanitaria, solidificano e cronicizzano la distanza dal mondo del lavoro che non ha solo l’elemento lavorativo al proprio interno, ma comprende rispetto di ruoli e orari, rispetto di colleghi e superiori, rispetto dei compiti assegnati, ovvero un insieme degli elementi tipici del vivere comunitario, elemento questo che viene meno quando si abbandona una vita attiva o non si riesce ad approcciare ad essa per vari motivi. Qui si comprende bene il ruolo dei tecnici del mondo del lavoro, non solo psicologi, ma anche operatori predisposti alla formazione e alfabetizzazione di base nel mondo del lavoro o in percorsi di altro livello, formazioni specifiche per abilità, per moduli tematici, attivazione di percorsi di tutorship e potenziamento in itinere (una sorta di formazione continua). Fondamentale sarà l’accompagno all’ottenimento delle certificazioni, quando possibile, e dei titoli di studio.
Un passo cruciale degli ultimi anni è stato mosso in comunione con la Agenzie di formazione al lavoro rispetto al riconoscimento delle capacità informali, ovvero tutta quella serie di skills presenti nella persona perché derivanti da esperienza sul campo, ma mai certificate. Pensiamo a tutti i lavoratori e le lavoratrici del mondo dei servizi alla persona – badanti, assistenti personali, assistenti familiari, accompagnatori – che hanno sempre lavorato in un sistema grigio se non completamente nero, fuori dal riconoscimento Inps e fuori dai diritti. Attraverso percorsi misti tra formazione, valutazione e validazione si può dotare di un titolo professionale riconosciuto anche coloro che non hanno mai avuto un lavoro regolare. Questa dinamica entra a far parte delle attività di empowerment trasversali che producono positività lavorativa e risultati tangibili e spendibili.
Un ulteriore elemento da tener molto presente nella creazione di un segmento sull’inserimento lavorativo riguarda il superamento di vincoli e canali informali, spesso postivi ma non strutturali e non strutturati, ovvero senza ossatura e senza sistematicità, basati su conoscenze personali o su modalità ripetute di rete. Non possiamo pensare che tutti gli enti del terzo settore diventino delle Apl, ovvero agenzie del lavoro, ma tutte dovrebbero dotarsi di un partenariato con una o più Apl accreditate con la Regione di riferimento.
Serve specificare che indubbiamente i primi movimenti definibili di “messa alla prova” (non in ambito legale giuridico) nel mondo del lavoro trovano spazio di manovra nelle capacità di Comuni e Regione rispetto alle attivazioni dei PUC, ovvero i Piani di attivazione comunale, dei TINA o tirocini di inclusione attivi, dei tirocini extracurricolari, degli inserimenti GOL (Garanzia di occupabilità dei lavoratori), e chi più ne innova ne metta! Questo sicuramente può essere il passo per il superamento di schemi privati e modalità con singole realtà amiche o vicine e un inizio di strutturazione di un sistema trasversale fattivo perché utile per tutti i beneficiari di servizi e progetti, ma anche spendibile come strumento in più per ampliare il ventaglio di attivazioni e candidarsi a più bandi.
Perla quindi ha avuto, come progetto unico in Italia, la capacità di leggere esigenze, attivazioni parziali, schemi programmatici validi e iniziative già presenti e organizzare una rete di scambio, di supporto, di condivisione e miglioramento di uno o più elementi dedicati. Da un lato alcuni partner sono stati in grado di implementare una struttura solida e un team professionale che agisce già da anni proprio con gli intenti e le modalità descritte, dall’altro lato in molti hanno potuto incrementare attività embrionali ponendo dei limiti e superandone altri, ampliando delle possibilità ma anche finalizzando protocolli specifici.
Per un approfondimento di quanto descritto invito alla lettura della presentazione della mia collega Matilde Somma, responsabile del sistema di inserimento lavorativo di On the Road Abruzzo, al link che segue: http://prezi.com/p/f8ijnrvcwwzu/?present=1. Attraverso una chiave grafica accattivante viene descritta la presa in carico multidisciplinare e integrata nel processo di inclusione socio-lavorativo.
Vorrei concludere con un brevissimo racconto della vita di Valerio, nome fittizio, che arrivato a 50 anni, dopo un’incarcerazione per detenzione e spaccio di sostanze stupefacenti, un’importante addizione alcolica e un caratteraccio da eremita è stato allontanato dalla famiglia e si è rifugiato all’interno di una roulotte abbandonata. A pochi giorni dallo sfratto e dal sequestro del giaciglio trovato, un team di prossimità aggancia Valerio e lo include da subito in dormitorio per alcune notti per poi passare rapidamente a una soluzione di co-housing in una casa comunale sequestrata alle narcomafie. Potete immaginare che inizialmente i ritmi e la dipendenza di Valerio hanno richiesto interventi continui e una presenza costante degli operatori all’interno della casa, soprattutto per mediare qualunque sua esigenza e abitudine con gli altri inquilini anche loro problematici. Ma lo scatto di qualità vitale è avvenuto proprio quando, oltre al team di prossimità, Valerio ha conosciuto gli altri soggetti del progetto personalizzato, ovvero gli educatori. Incluso in un laboratorio occupazionale, manuale, per testare, impegnare e ridare capacità alla persona, poi inserito in tutta una serie di formazioni e momenti di condivisione, compresi i gruppi legati al SerD e alcologia, Valerio ha ridotto la sua addizione in maniera drastica e ha volontariamente messo in campo quanto appreso e ciò che ha ritrovato nelle sue capacità per ristrutturare gli ambienti di casa in comune e gli uffici secondari nei quartieri dove le case sequestrate insistevano. Ha iniziato, dunque, un movimento lavorativo che ancora oggi – dopo cinque anni – non si interrompe, ferie a parte. Oggi Valerio non beve e non fa uso di sostanze, ha ritrovato la famiglia, il sorriso, la voglia di mettersi in gioco. Le progettualità che lo hanno sostenuto ci hanno permesso di creare dei kit lavoro bilanciati sulla sua persona, sulle sue capacità. Da non sottovalutare mai come poche centinaia di euro devolute ad acquisti di strumenti di lavoro possano ridare forma e reale sostanza alle capacità di una persona che aveva dimenticato chi fosse, aveva dimenticato di poter essere di nuovo sé stesso.
Massimo Ippoliti, CNCA
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