Intervista a Tommaso Labate: «Meloni ha vinto il referendum su se stessa. Alle politiche i riformisti saranno decisivi» - Partito Socialista Italiano

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Intervista di Giada Fazzalari

L’8 e 9 giungo l’Europa è andata al voto il rinnovo del Parlamento europeo. La destra italiana ha esercitato una prova di forza sia nel paese che all’interno delle forze stesse di maggioranza. Alcune forze di opposizione si sono affermate anche oltre le aspettative, altre hanno subìto le conseguenze di ruggini e divisioni. Ma se si vuole creare un’alternativa al governo, serve il contributo di tutti. Con Tommaso Labate, giornalista e scrittore, opinionista e conduttore, abbiamo fatto un’analisi del voto con uno sguardo alle dinamiche politiche italiane.

Le urne hanno confermato un trend in crescita per le forze di governo. È una risposta degli italiani al referendum che Giorgia Meloni ha voluto fare su se stessa o hanno dato piuttosto una indicazione su come vorrebbero l’Europa?

«Senz’altro è arrivata una risposta chiara al referendum sulla premier. Giorgia Meloni è stata l’unico capo di governo tra i grandi Paesi europei ad essere non soltanto non insidiata dal voto, ma addirittura ad essere stata premiata. Ma c’è di più: la sua fortuna è che l’architrave aritmetico su cui si reggeva la maggioranza di governo non si è modificata, grazie a un risultato non troppo sbilanciato rispetto alle altre forze di governo. In caso contrario lei avrebbe rischiato di passare attraverso quei classici riti che sono un rimescolamento delle carte, un rimpasto o un tagliando di governo».

Quindi a tuo avviso il governo è saldo fino al 2027?

«Quando faccio riferimento alla tranquillità in politica o a tempi lunghi, parlo di tre settimane. Quindi può sempre succedere di tutto».

Salvini e Vannacci sembra siano risultati strumentali l’uno all’altro. Senza il generale il capitano sarebbe oggi in maggiore difficoltà o al contrario credi lo abbia allontanato dalla base storica della Lega?

«Hai presente quando hai fame e devi magiare velocemente qualcosa a tutti i costi, ma a casa hai solo le merendine? Ecco Vannacci per Salvini è stato un “effetto merendina”. Ha curato una sorta di fame, che gli serviva in termini di consenso, ma ha mangiato una cosa che alla lunga non gli farà bene».

Quindi secondo te a lungo andare sarà un problema per la leadership di Salvini?

«Ricordi lo straordinario consenso che ebbe Calenda candidandosi con il Pd? Finì che andò via fondando un altro partito. La verità è che Salvini ha scelto il generale Vannacci perché aveva il timore di candidarsi lui, cosa che ha valutato a lungo. Avrebbe però rischiato pesanti contraccolpi sia nel rapporto con gli altri leader del centrodestra che si sono candidati, Tajani e Meloni, e soprattutto perché la presenza di Salvini in lista sarebbe stato l’antipasto di una sorta di congresso anticipato della Lega. Si sarebbe misurato con un consenso che verosimilmente nel partito non è più quello di una volta».

Il M5S guidato da Conte ha ottenuto il peggior risultato di sempre. È il segno che una parte del vecchio elettorato Pd è tornato a casa?

«Questo è senz’altro un tema ma io penso comunque che lo “scambio” di consenso tra Pd e M5S non ci sia mai stato davvero. Il M5S pescava, agli albori, dal sentimento diffuso dall’antipolitica e poi, da quell’area del 20% dell’elettorato che dal 2014 va peregrinando di partito in partito. Lo stesso che nel 2014 per esempio ha creduto in Renzi, poi lo ha scaricato e ha votato i Cinque Stelle che infatti passava dal 20 al 35% nel 2018. Un consenso che poi è passato a Salvini e infine a Meloni. C’è una sorta di elettorato conformista che per “castigare” la persona che aveva votato, poi la tradirà con il leader di turno, altrimenti non si spiegano queste oscillazioni così forti. Renzi nel 2014 prese il 40,8% e Salvini nel 2019 il 35%. Oggi vediamo come è andata».

Quindi è stato un voto sui leader?

«È un’elezione in cui si sperimenta il voto d’opinione. È una sorta di super sondaggio. In politica è l’elezione più vicina a un televoto».

Nessuno sarebbe in grado di dire oggi qual è il pensiero di Ilaria Salis sull’Europa; eppure ha conquistato un seggio a Strasburgo con una valanga di preferenze. Che segnale è?

«È un segnale che non è da liquidare con sdegno. C’è un precedente che voi socialisti ricorderete: quando Tortora fu candidato alle europee nel 1984, le sue idee sul mercato comune europeo della Cee non si può dire che fossero note. Ma come Ilaria Salis (e non voglio dire che una situazione fosse peggiore dell’altra perché sono due cose diverse) era incappato in una storiaccia che si rivelò una tragedia personale. Salis è il simbolo di una sorta di ribellione all’ingiustizia dello Stato, una battaglia garantista. E non è un caso che sia stata Alleanza Verdi Sinistra a candidarla».

Verosimilmente anche il Pd voleva candidarla…

«È stato uno di quei casi in cui Schlein ha fatto una retromarcia dopo i casi delle regionali che si erano appena tenute, perché c’era tensione anche con chi nel partito l’aveva sostenuta nella fase delle primarie. Ma allora aveva avuto una buona intuizione».

I candidati della lista Stati Uniti d’Europa sono stati gli unici a parlare di Europa mentre gli altri partiti si sono concentrati di più sulle questioni interne. Secondo te il mancato raggiungimento del 4% è stato dovuto a questo? I riformisti che si sono divisi si sono danneggiati a vicenda?

«Nonostante il “simpatiometro” non sia alle stelle, il 7% dei riformisti, in una condizione di liti e accuse reciproche, è un risultato che farebbe la differenza in uno scontro alle elezioni politiche tra centrosinistra e centrodestra. Anche se ci sarà sempre qualcuno che teorizzerà che l’alleanza con i riformisti farebbe perdere consensi al centrosinistra».

Qualcuno sostiene non siano vicini a quell’area.

«Renzi e Calenda possono essere antipatici a chiunque si voglia, ma è indiscutibile che siano più di centrosinistra che di centrodestra. Renzi è stato il leader del Pd e Presidente del Consiglio espresso da quel partito; Calenda è stato un esponente candidato alle europee con il Pd e Ministro del governo Renzi. Serve una ricomposizione con questo pezzo di Paese che è più vicino al centrosinistra che non al centrodestra».

E’ un errore escludere anziché includere, se si vogliono vincere le elezioni?

«In una eventuale contesa tarata sul bipolarismo non si può prescindere da quest’area se si vuole creare una alternativa al governo. Qui non parliamo di Renzi o di Calenda, ne’ di persone fisiche. Ma parliamo di un pezzo di Paese che si riconosce nel mondo laico, riformista e comunque antifascista antinazionalista, europeista, all’opposizione di questa destra. È necessario avere a che fare con queste forze ed includerle nel mondo progressista se si vuole ambire e vincere le elezioni».

Questi ragionamenti si facevano anche all’epoca degli scontri Prodi – Berlusconi.

«Ecco, Prodi per quanto preferisse probabilmente fare a meno di Mastella e Bertinotti o per quanto non li trovasse le persone più simpatiche del pianeta, sapeva che non poteva prescindere dall’area che rappresentavano. E infatti senza quell’area per esempio la seconda volta al governo non ci sarebbe tornato».

Quindi l’alternativa a questa destra si costruisce senza poter fare a meno di nessuno al di là delle divisioni che pure ci sono?

«L’accordo si trova se c’è l’intenzione di farlo. Dire che in certe elezioni locali il centrosinistra ha vinto anche senza i riformisti è come sostenere che la fame nel mondo non esiste perché ti stai mangiando un panino. Il tema è: se il mondo progressista che si riconosce in quello che si chiama centrosinistra, a iniziare dal Pd, vuole vincere le prossime elezioni politiche in un Paese tendenzialmente conservatore, non si può prescindere dai riformisti del centrosinistra. È chiarissimo, persino banale dirlo. E l’operazione di Stati Uniti d’Europa aveva un suo fascino per gli amanti della politica, mi ricorda la Rosa nel Pugno».

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