Di quello che succede sott’acqua, di come sono fatte le profondità degli oceani, delle forme di vita che abitano a migliaia di metri sotto la superficie, l’umanità sa eccezionalmente poco. Sotto certi aspetti, meno di quanto sappia di pianeti distanti milioni di chilometri.
Chi decide sui fondali marini?
Ancora in gran parte ignota è, ad esempio, la morfologia dei fondali degli oceani, che in diversi punti superano i settemila metri di profondità. Proprio sui fondali degli oceani si sta in questi giorni giocando una partita importante: a Kingston, in Giamaica, si riuniscono il Consiglio e l’Assemblea dell’Autorità internazionale dei fondali marini (nota anche con l’acronimo inglese ISA), un’organizzazione internazionale attraverso cui 168 Stati e l’Unione europea organizzano e controllano le attività legate alle risorse minerarie nell’alto mare (il cosiddetto deep sea mining), cioè le acque che distano più di 200 miglia dalle coste. Complessivamente, l’area sulla quale ha autorità l’ISA corrisponde a circa il 54% della superficie mondiale degli oceani.
Che cosa si sta decidendo a Kingston? Secondo quanto annunciato dalla stessa ISA, l’attenzione principale sarà rivolta all’avanzamento dei negoziati sulla bozza di regolamento per lo sfruttamento delle risorse minerarie, con l’obiettivo di arrivare alla cosiddetta prima lettura del testo, il primo passo formale per giungere a una normativa.
A caccia di risorse minerarie
Quali risorse minerarie? I minerali presenti nei fondali marini più interessanti sotto il profilo commerciale sono quattro: manganese, rame, cobalto e nichel, quattro dei sei minerali “chiave” (così viene definita dalla Bce in un recente articolo tradotto e pubblicato anche sul sito del Senato italiano) per la transizione verde. Nel testo, si definisce “di vitale importanza” la capacità di assicurare la fornitura di questi “minerali verdi”, la cui estrazione è oggi “concentrata principalmente nelle economie di mercato emergenti e in via di sviluppo del Sud America e dell’Africa”. Sempre secondo l’articolo pubblicato sul blog della Bce, “alcuni Paesi ricchi di minerali stanno cercando di formare cartelli, anche se finora senza successo” e “dal punto di vista geopolitico, la Cina sembra attualmente essere in una posizione migliore rispetto all’Ue e agli Stati Uniti per quanto riguarda l’approvvigionamento di minerali critici”.
Nel testo, si sottolinea che “la domanda di questi minerali quasi quadruplicherà entro il 2040, se la transizione avverrà in conformità con l’Accordo di Parigi”, ma si fa anche presente che “la ricerca sui materiali sostitutivi per le tecnologie verdi sta dando i primi risultati promettenti e potrebbe ridurre la domanda futura di minerali critici”. Proprio su questo punto insiste The Ocean Foundation, la fondazione comunitaria nata negli Stati Uniti la cui missione è “migliorare la salute globale degli oceani, la resilienza climatica e l’economia blu”.
Nel rapporto del 2024 intitolato Deep sea mining isn’t worth the risk (letteralmente L’estrazione mineraria in alto mare non vale il rischio), sostiene che la progettazione delle innovazioni legate alla transizione ecologica “si sta allontanando dai minerali presenti sui fondali marini, in particolare dal cobalto, anche per quanto riguarda le batterie” dei veicoli elettrici, e che è verosimile stimare una riduzione della domanda di “cobalto, nichel e manganese del 40-50% tra il 2022 e il 2050”.
Deep sea mining, ecco cosa rischiamo
I timori, i dubbi e le preoccupazioni relative alla corsa ai fondali marini sono di diversa natura: sul fronte economico, ad esempio, spedizioni di questo tipo hanno costi elevatissimi (secondo le stime riportate nel documento di The Ocean Foundation, la missione di novembre 2023 della compagnia The Metals Company è costata un milione di dollari al giorno). Ma ciò che interessa maggiormente a noi, perché avrà ripercussioni su tutti gli abitanti del pianeta, sono i costi ambientali: in termini di perdita di biodiversità marina e di capacità di pesca.
Gli oceani e i loro fondali non sono una terra franca, un ambiente da predare, un bottino da arraffare: seppur in gran parte sconosciuto, sono un ecosistema prezioso per gli effetti che produce sulla vita terrestre. Vogliamo che vengano protetti: dalla predazione dell’uomo, dall’ingordigia dell’economia e della finanza globale, dagli interessi geopolitici.
Chiediamo con forza che i fondali marini siano lasciati integri e intonsi, perché il pianeta non è una merce a disposizione dell’uomo. We are nature, come recita il claim di Terra Madre Salone del Gusto 2024, significa proprio questo: siamo natura e abbiamo la necessità di costruire una nuova relazione con la natura, lontana dal paradigma dello sfruttamento e dalla logica del profitto a ogni costo.
E poi c’è un altro aspetto, tutt’altro che secondario: nei fondali marini è stoccata una gran quantità di carbonio e si teme che l’estrazione mineraria nell’alto mare possa alterarne il ciclo, influenzando negativamente il modo in cui l’oceano mitiga il riscaldamento delle temperature globali. Da questo punto di vista, alcuni studi hanno dimostrato che, anche dove sono stati compiuti esperimenti di piccola scala sull’estrazione mineraria in profondità, a distanza di 26 anni il ciclo del carbonio non ha ripreso il proprio normale andamento.
A cura di Marco Gritti, m.gritti@slowfood.it