L’ultima caccia – Chiacchiere Letterarie

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La prima cosa che la colpì entrando in città fu l’odore: un misto di sterco di cavallo, frutta marcita al sole e umanità compressa in pochissimo spazio. Dovette infilare la mano nella tasca ed estrarre un fazzoletto per portarselo al viso, nel tentativo di tenere le sgradevoli esalazioni di Saeria lontane da lei. Servì a poco, perfino attraverso le trame di lino imbevute di colonia le salì alle narici il bouquet nauseante della città.

Il caos arrivò per secondo, come se, terminata la prima portata olfattiva, le strade le presentassero ora quella visiva in tutto il loro splendore. Non vi era un metro di strada scoperta, non un singolo angolo tra gli affollati e soffocanti edifici che non avesse alternativamente una bancarella, un tavolino o un mendicante seduto per terra. Al centro della carreggiata, enormi carri si facevano largo tra la folla, tra le grida e gli insulti dei passanti. 

Per ultimo, infine, arrivò il suono. Una cacofonia di voci di mille lingue diverse, una babele nella quale la sua mente, abituata alla calma pacata degli scaffali, parve affogare.

Con ancora il fazzoletto premuto sul naso, Anita navigò a spintoni quel marasma, perdendo qualunque traccia di dignità l’avesse accompagnata fino a lì. E pensare che, presentandosi alle porte, aveva suscitato diverse esclamazioni sorprese, occhi spalancati ed espressioni timorose alla vista dei colori della sua uniforme, dell’oro su campo azzurro al quale tutti, su Aran, portavano rispetto.

Tutti, tranne i bifolchi che costellavano i quartieri mercantili di Saeria. Lì nessuno la degnava di un’occhiata, veniva urtata e spintonata come un sacco di merce qualunque. Per un attimo fu tentata di farsi largo con la forza, ma tenne a bada quell’istinto. C’erano delle regole, prescrizioni ben precise per situazioni come quella. Non poteva e non doveva attirare l’odio, o men che mai la paura, a nemmeno un’ora dal suo arrivo.

Quindi avanzò strisciando in mezzo alla folla come una contadina qualunque, trattenendo a stento gli improperi quando qualcuno le tirava per sbaglio i lunghi capelli, quando le pestavano un piede calzato in comode scarpe da viaggio.

Arrivò alla locanda dopo un tempo che le parve infinito. Lì, storse le labbra alla vista dell’insegna storta, dei vetri infangati e pieni di ditate. “Pazienza, pazienza, pazienza” mormorò più volte, come fosse un mantra. “Ci resterai poco”.

Rimise in tasca il fazzoletto e varcò la soglia, il passaggio dalla luce accecante dell’esterno alla penombra della sala da pranzo la lasciò stordita qualche istante. Dentro, per fortuna, il brusio era lieve, forse a causa dell’ora giovane.

Dietro il bancone, una donna robusta serviva birra a un tipaccio dall’aspetto rozzo, sporco ben più di lei. Anita vi si avvicinò camminando con compostezza, perché dopotutto era asteriana e, anche in un posto come quello, i dettagli contavano.

«Buon giorno, signora» disse, arricciando involontariamente il naso per la zaffata di sudore che arrivava dall’uomo seduto al bancone. «Ho prenotato una camera per qualche giorno.»

La locandiera posò lo sguardo su di lei, parve vedere per prima cosa la tunica, solo dopo il viso stanco e prostrato dal viaggio. Quando parlò, lo fece con voce timorosa e carica di rispetto. «Buon giorno, milady. Avete… avete avuto un buon viaggio?» Esitò qualche istante, prima di aggiungere. «Ho già pronta una stanza. Sapete… nel caso volete sdraiarvi prima di pranzo.»

Anita trattenne una smorfia. Non poteva aspettarsi troppo, da quella gente, lo sapeva bene, ma odiava quando qualcuno macellava la lingua. «Vi ringrazio. Gradirei anche un bagno» disse con rigidità, pensando di non essere l’unica ad averne bisogno.

L’uomo accanto a lei non sembrava curarsi del suo odore, né del suo aspetto. Sedeva scompostamente sulla sedia, un boccale di birra in mano, gli abiti sporchi dalla fatica di chissà quanti giorni. Lei lo squadrò qualche istante, notò con piacere che lui evitava di incrociare il suo sguardo.

«Certamente. Preparo l’acqua» disse la locandiera, e sparì dalla porta sul retro.

Anita si allontanò dall’uomo, lasciando vagare lo sguardo dentro la minuscola locanda. “Certo che potevano scegliere meglio” pensò, rimproverandosi per la fretta con la quale aveva mandato un messo a riservarle una stanza in una locanda qualunque di quella zona, e rimproverando al contempo il messo per il cattivo gusto. La visita a Saeria era stata imprevista, una deviazione dal suo viaggio che aveva accettato con stanca gratitudine, ma che l’aveva costretta a rivalutare tutti i suoi piani. La verità era che non vedeva l’ora di tornare a casa, ad Asteria, e di prendere il posto che anelava da tempo. “L’ultima caccia” si disse per consolarsi. “Una cosa rapida, e poi è fatta”.

Mentre la locandiera, rientrata nella sala, le faceva cenno di seguirla al piano di sopra, Anita ripassò a mente i pochi dettagli che aveva appreso di quella nuova caccia: uomo, poetastro squattrinato, a quanto pareva aveva composto dei versi per la sua amata, tanti da riempire un taccuino intero. Se n’era vantato in qualche taverna, nominandola la sua “opera più bella”, e attirando così l’attenzione del Catalogo, che non ne aveva ricevuto ancora un copia. E che l’aveva mandata lì, in quella città sporca e piena di mercanti, a chiarire quel non tanto piccolo particolare.

L’unica cosa che rendeva accettabile la deviazione, pensò Anita spogliandosi e scivolando nell’acqua calda, era la curiosità di scoprire cosa racchiudesse quell’opera. Versi banali e sdolcinati, con tutta probabilità, ma c’era sempre una piccola parte di lei che sperava, in una caccia o nell’altra, di imbattersi in un piccolo tesoro.

Restò distesa nella vasca troppo piccola a lungo, lasciando che il tepore la rigenerasse. Quando infine ridiscese nella sala, pulita e con una nuova veste indosso, si sentì ben più padrona di sé stessa e ben più fiduciosa. Pranzò sotto gli sguardi perplessi degli altri clienti, che sicuramente si chiedevano cosa ci facesse un’astoriana in quel buco di locanda dimenticato dagli dei. Se ne curò poco, concentrata com’era a ripassare le informazioni nella mente e a stilare un piano.

Per prima cosa, aveva bisogno di localizzare il poetastro. La sua fonte le aveva detto che alloggiava in una taverna lì vicino, unica ragione per cui aveva scelto di affittare una stanza nel quartiere, ne era certa, più puzzolente di tutta Saeria. La stessa taverna sarebbe stata sospetta, e avrebbe con tutta probabilità fatto drizzare le orecchie al poeta, nel caso la sua non fosse stata mera dimenticanza ma un’infelice scelta ponderata.

Finì il suo pasto e si alzò per recarsi al bancone. «Dove trovo il “Vecchio corvo spiumato?”» chiese, trovando quelle parole ridicole pronunciate dalle sue labbra.

Anche la locandiera sembrò perplessa da quella richiesta, ma rispose comunque: «La taverna?»

Anita trattenne uno sbuffo e annuì. «Sì, la taverna. Come ci arrivo?»

«Continuate la strada» disse la donna, felice di essere d’aiuto. «Girate a destra quando incontrate la fontana. La trovate proprio all’incomincio della via.»

«Vi ringrazio.» Anita estrasse il borsello e lasciò qualche moneta sul bancone. «Non so ancora se tornerò, stanotte. Intanto vi pago la stanza, vorrei che rimanesse libera.»

«Certamente.» La donna intascò i soldi con un movimento rapido, poi le sorrise con una bocca mezza sdentata. «Buona giornata, milady.»

«Anche a voi.»

L’impatto con l’esterno fu di nuovo devastante. Anita socchiuse gli occhi e sbuffò fuori l’aria dalle narici, nella speranza di cancellare l’odore; ma non servì a nulla e fu costretta a ritirare fuori il fazzoletto e ad avanzare con il viso mezzo coperto.

Seguendo le indicazioni della taverniera, in pochi minuti arrivò al “Vecchio corvo spiumato”, e la vista le trasmise la stessa impressione di triste provincialità della precedente taverna. Prima di entrare, lanciò uno sguardo alle finestre aperte, nella speranza di individuare quella del poeta. Le sarebbe potuta tornare utile, nel caso lui avesse scelto di non comportarsi da persona ragionevole.

Nessuna di quelle, però, aveva segni particolari.

Entrò quindi nella taverna, questa volta più affollata e rumorosa. Numerosi sguardi si posarono sulla sua veste, la esaminarono una frazione di secondo prima di scivolare prudentemente da un’altra parte. Solo un paio d’occhi esitò più a lungo sulla sua figura, attirando subito la sua attenzione. Appartenevano a un giovane uomo di bell’aspetto, dai capelli ricci e il volto ovale e olivastro. Gli abiti ne rivelarono subito l’occupazione: pantaloni in pelle scura e attillata, camicia bianca aperta sul petto, macchie di inchiostro nero a puntellarne la superficie. Doveva essere il poeta.

Anche lui parve riconoscerla al volo, ma con grande sollievo di Anita non si alzò per correre verso una via di fuga. Lo ringraziò silenziosamente, l’ultima cosa di cui aveva voglia era mettersi a rincorrere qualcuno subito dopo pranzo. Sul viso del poeta, però, lampeggiò per un attimo un lampo di sfida. Poi smise di guardarla, tornò alle carte che teneva in mano. Stava giocando con un gruppo di tre uomini, mercanti a giudicare dall’abbigliamento e dalle pettinature. Sedeva in maniera noncurante, scomposta, come se volesse comunicare ai suoi sfidanti – e ora anche a lei, capì Anita – che non aveva nulla da temere.

«Allora, signori» disse, aprendo le labbra in un sorriso. «Sto ancora aspettando le vostre mosse.» Aveva una voce chiara, gradevole, che arrivava fino a lei senza fatica, distinguendosi in mezzo alla folla. Doveva essere abituato a declamare i suoi componimenti in pubblico.

Anita si mosse verso di lui senza fretta, tenendolo d’occhio. Si fermò a qualche passo dal tavolo per osservare la partita, attirando qualche altra occhiata perplessa della quale non si curò. Attese che i mercanti facessero le loro mosse, che il poeta rivelasse le sue carte ed esclamasse con fare arrogante: «Sembra che io vi abbia in scacco, signori» per schiarirsi finalmente la gola ed esordire con uno studiato: «Signor Levin, buon giorno. Vengo da Asteria per conferire con voi.»

Con sua meraviglia, il poeta non si lasciò intimorire da quelle parole. Le rivolse invece un aperto sorriso e ribatté: «Buon giorno a voi. Come vedete, sono occupato. Ne avrò ancora per un po’, se intanto volete accomodarvi…» Le indicò una sedia libera al suo tavolo, apparentemente incurante di quanto quell’offerta fosse inappropriata.

Anita fu costretta a tenere a bada l’irritazione. Chi si credeva, quel poetucolo, per rimandare un colloquio con la grande Asteria che lei, in quel momento, rappresentava? Storse le labbra in una smorfia. «Desolata, ma Asteria non può aspettare» scandì, in tono chiaro e severo.

Il poeta le lanciò un’occhiata ilare. «Desolato a mia volta, ma temo che dovrà farlo» ribatté.

L’irritazione di Anita aumentò. I compari di gioco del poeta si guardarono l’un l’altro con sguardi preoccupati, tra loro passò una comunicazione silente ma facilmente intuibile. Fu il più vecchio di loro a parlare. «Levin, noi lasciamo» disse, lanciando un’occhiata timorosa verso Anita. «La vincita è tua.»

Il poeta allargò le labbra in un sorriso. «Avanti, Serge. Non vorrete rinunciare così…» disse, ma gli uomini già non gli davano più ascolto. Raccolsero le loro cose e uscirono dalla taverna, lasciandolo solo alla mercé di Anita. Anche se nessuno degli altri commensali guardava direttamente nella sua direzione, la caccialibri fu certa di avere l’attenzione dell’intera sala. La cosa non le dispiacque. «Bene, signor Levin» disse, in tono sufficientemente alto perché tutti potessero udire agevolmente. «Direi che ora possiamo parlare.»

Prese posto al tavolo, spostò le carte da una parte e poggiò i gomiti sul piano, una mano dentro l’altra per mettere in mostra l’anello che, non fosse bastato il resto del suo abbigliamento, metteva in chiaro di quale potere fosse investita. Levin non si scompose, anzi, rimase appollaiato storto sulla sua sedia, lo stesso sorriso sornione di poco prima. «Se proprio insistete… come posso aiutarvi?»

Anita trasse un respiro profondo, affogò la tentazione di rimettere in riga il poeta come avrebbe meritato. Meglio non fare azzardi, meglio mantenere la compostezza. Ne andava del buon nome di Asteria. «Ci è giunta voce» disse, scandendo ogni parola con attenzione, «che avete prodotto un libro. Un’opera di poesia.»

«Ah sì? Può essere, scrivo talmente tanto che è facile perdere il conto delle pagine…» ribatté subito Levin, senza perdere un accenno della sua sicurezza. «Ma se voi dite che ho scritto un libro… be’, chi sono io per contraddirvi? Gli esperti, d’altro canto, siete voi.»

Qualcuno si agitò, sedie scricchiolarono e colpi di tosse sorpresi si levarono dalla sala. Anita lanciò un’occhiata intorno, notò diversi volti abbassarsi al passaggio dei suoi occhi. Solo un paio d’occhi rimase per un momento alzato, incrociò i suoi e il viso che li contornava arrossì appena. Apparteneva a una giovane fanciulla vestita in maniera modesta, ma con lunghi capelli scuri acconciati con grazia e un portamento elegante che contrastava con l’abbigliamento. Anita ci si soffermò un istante con curiosità, poi tornò a guardare Levin, atteggiando il viso in un’espressione glaciale. «Dite bene, siamo noi gli esperti. Ma suppongo che perfino un poeta di bassa lega sappia come funzionano le cose.»

«Forse supponete troppo…» rispose lui, e Anita fu costretta a mettere di nuovo a tacere quella piccola parte di lei che avrebbe voluto incenerirlo lì, seduta stante. «Forse, un poeta di bassa lega come me non capisce tutto questo interesse da parte della grande Asteria.»

«Allora…» disse Anita, sporgendosi verso di lui con fare minaccioso. «Lasciate che vi chiarisca il concetto: avete scritto un libro, non lo avete consegnato al Catalogo. Sono qui per rimediare alla vostra… distrazione, se vogliamo chiamarla così.»

«Oh, be’…» Il poeta si guardò intorno, scambiò un’occhiata o due con i commensali, tornò a guardarla con il sorriso sempre vivo sul volto. «Quando è così, possiamo rimediare subito.» Infilò il braccio dentro la borsa che teneva appesa alla sedia, ne tirò fuori un grosso tomo mal rilegato. «Ecco a voi, la mia “Opera suprema”. Prendetela, se proprio insistete.»

Anita dovette trattenersi per non spalancare la bocca dalla sorpresa. Era stato davvero così facile? Allungò la mano verso il tomo aspettandosi di venire ostacolata, ma il poeta si limitò a scrollare le spalle e a invitarla a prendere l’oggetto. Così, la caccialibri lo avvicinò a sé, ne scrutò l’esterno con grande attenzione. Era rilegato in maniera rozza, inesperta, come ci si sarebbe aspettati da un poeta di provincia. All’interno, le pagine erano scritte a mano in una grafia maschile fitta e regolare; erano disseminate di correzioni, di macchie di inchiostro sparse qua e là, di tutte quelle imprecisioni tipiche di un’opera manoscritta in tali circostanze. Eppure… più scorreva le pagine, più Anita ebbe la sensazione che tutto, in quell’opera, fosse fin troppo tipico. La regolarità della grafia, perfino gli errori e le macchiature. Era tutto così perfettamente imperfetto da saltare subito all’occhio – almeno a quello di un’esperta – come qualcosa di studiato ad arte proprio per essere imperfetto.

A quella consapevolezza, Anita alzò lo sguardo e l’occhio le cadde di nuovo sulla fanciulla che sedeva a pochi tavoli dal loro. La colse, per un istante, a fissarla con attenzione, ma la testa della giovane corse subito verso il basso appena Anita ebbe rialzato del tutto la sua.

Un sospetto prese a formarsi nella sua mente, e con esso un piano. Tornò a rivolgersi al poeta – o finto poeta? – con un tono più morbido, più dolce. «Signor Levin…» scandì, avendo cura che ogni vibrazione della voce arrivasse chiara anche qualche tavolo più in là. «Asteria la ringrazia per la sua ragionevolezza. Faremo catalogare l’opera e al più presto le faremo pervenire una copia che ne compensi la perdita.»

Con la coda dell’occhio, Anita colse le spalle della giovane abbassarsi per il sollievo. Il sospetto crebbe, si rafforzò insieme al suo piano. La caccialibri si alzò, porse la mano al poeta con un sorriso. «È stato un piacere collaborare con lei.» Attese che Levin le stringesse la mano, poi prese il libro e lo ripose nella sua sacca. «Arrivederci» disse, e con la stessa dignitosa compostezza con la quale era entrata nella taverna, uscì alla luce del sole.

Si guardò intorno per qualche secondo, memorizzò i dettagli della via e il passaggio della folla. Poi si mosse verso la fontana e trovò un posto all’ombra dal quale osservare la porta.

Dovette attendere quasi un’ora prima che la giovane uscisse finalmente dalla taverna. La riconobbe subito, anche se aveva indossato un mantello che le celava le vesti umili. Il suo portamento era troppo dissimile da quello dei rozzi avventori della zona. La seguì per un po’ con lo sguardo, finché non la vide imboccare un vicolo poco distante. Solo allora si alzò e iniziò a seguirla a passo sostenuto. Non accelerò, perché non aveva il timore di perderla. Aveva i suoi sistemi, le sue certezze e infatti poco dopo la individuò di nuovo in mezzo alla folla. Rimase sempre indietro di almeno una ventina di passi ma non la perse mai di vista, e lasciò che lei la guidasse tra le vie del quartiere mercantile e poi fuori, verso una zona più abbiente e raffinata di Saeria.

L’intuizione di Anita si concretizzò quando la giovane si fermò davanti a un edificio a due piani dipinto di toni accesi, con il balcone invaso da un rampicante in fiore. Attese che lei entrasse, prima di staccarsi dalla folla e leggere l’insegna che pendeva sulla porta: “Nastri e ricami di Verin”, recitava.

Anita cercò un’altra zona in ombra e da lì tenne d’occhio le finestre. Qualche istante dopo, la giovane aprì una delle imposte e si sedette a contemplare il cielo, i lunghi capelli corvini ora sciolti e una penna d’oca in mano.

Un sorriso di soddisfazione si aprì sul volto di Anita. Adorava avere ragione. La giovane seguitava a osservare la volta azzurrata ma, ogni tanto, lo sguardo si muoveva verso la finestra dell’edificio di fronte. Con sapiente discrezione, Anita scivolò da un lato all’altro della strada e guardò nella stessa direzione. Al di là di un piccolo balconcino, anch’esso colmo di fiori, intravide per un attimo la figura di un’altra giovinetta, bionda questa volta e bellissima.

Anita si ritirò in un vicolo, pescò il finto manoscritto originale dalla borsa e lesse alcuni dei versi. Li trovò di una delicatezza e di una dolcezza unici: parlavano di amore, e lo facevano con grazia e con garbo rari. Mentre leggeva, gli ultimi tasselli di quella trama andarono al loro posto, e Anita ebbe davanti il quadro completo.

Benché la grafia cercasse di rivendicare una paternità, fu facile riconoscere invece la maternità originale. Così come intuire che il “dolce volto latteo, i capelli di spighe d’

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Denise