Cosa dice la sentenza della Corte di Giustizia UE sui Paesi terzi sicuri

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Lo scorso 4 ottobre la Grande sezione della Corte di Giustizia dell’Unione Europea è intervenuta su un tema di centrale importanza, la fattispecie di Paese di origine sicuro, con una sentenza che chiarisce alcuni principi fondamentali del diritto dell’Ue in materia di procedure per il riconoscimento della protezione internazionale per richiedenti asilo provenienti da Paesi di origine designati come sicuri.

La possibilità per gli Stati membri UE di designare Paesi di origine sicuri sulla base di informazioni fornite da altri Stati membri, dall’EASO, dall’UNHCR, dal Consiglio d’Europa e da altre organizzazioni internazionali competenti è prevista dall’art.37 della Direttiva 2013/32/UE, la quale, all’Allegato 1, chiarisce che “un Paese è considerato Paese di origine sicuro se, sulla base dello status giuridico, dell’applicazione della legge all’interno di un sistema democratico e della situazione politica generale, si può dimostrare che non ci sono generalmente e uniformemente persecuzioni quali definite nell’articolo 9 della direttiva 2011/95/UE, né tortura o altre forme di pena o trattamento disumano o degradante, né pericolo a causa di violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato interno o internazionale”. 

Paese di origine sicuro e procedura accelerata

La designazione di un Paese come “sicuro” riveste una rilevanza cruciale nelle procedure di esame delle domande di asilo dal momento che le domande presentate da cittadini provenienti da Paesi considerati sicuri vengono esaminate con una procedura accelerata. In Italia, tale procedura comporta una significativa restrizione delle garanzie procedurali: 

  • Sono ridotti i tempi della decisione in merito alla domanda d’asilo: la commissione territoriale competente deve infatti provvedere nell’arco di soli 7 giorni a convocare in audizione il richiedente e decidere della sua domanda entro i successivi 2 giorni (a fronte dei 30 giorni per l’audizione e 3 giorni per la decisione nell’ambito della procedura ordinaria). 
  • Se la domanda viene presentata in zone di frontiera o di transito –  i territori albanesi individuati dal Protocollo Italia-Albania rientrerebbero in questa definizione (art.3 c.3 della Legge 21 febbraio 2024, n. 14) – si può andare incontro a una procedura accelerata di frontiera: si tratta della possibilità di svolgere le pratiche direttamente alla frontiera o nella zona di transito, una possibilità prevista, tra gli altri casi, se il richiedente asilo proviene da un Paese designato sicuro. In questo caso i tempi si riducono ulteriormente: il termine per la decisione da parte della commissione si contrae infatti a soli sette giorni complessivi dalla ricezione della domanda. 
  • Sono ridotti i tempi per l’eventuale impugnazione della decisione: il tempo concesso per impugnare il provvedimento di diniego del riconoscimento della protezione internazionale è ridotto a 15 giorni, in confronto ai 30 della procedura ordinaria.
  • Si verifica un’inversione dell’onere della prova, in quanto spetta al richiedente asilo confutare la presunta sicurezza del proprio Paese, adducendo “gravi motivi” che dimostrino che quest’ultimo non sia sicuro per la propria specifica situazione. 
  • In caso di ricorso da parte del richiedente, non si applica la sospensione automatica del provvedimento di rigetto, con il risultato che lo straniero è passibile di espulsione anche prima della decisione definitiva riguardo la sua domanda d’asilo.

Il caso di un cittadino moldavo

Il caso oggetto della sentenza C-406/22 riguardava la designazione della Moldavia come Paese di origine sicuro da parte della Repubblica Ceca. In particolare, la questione concerneva la domanda di asilo presentata alla Repubblica Ceca da parte di un cittadino moldavo che denunciava di aver subito in passato attentati contro la sua persona per i quali le autorità locali non avevano trovato i responsabili. Inoltre, adduceva come ulteriore motivo della sua richiesta di asilo il fatto che la Transnistria, sua regione di origine, fosse confinante con l’Ucraina, e che quindi non fosse più considerabile un territorio sicuro in seguito all’invasione di quest’ultima da parte della Russia. 

La domanda del richiedente venne in prima istanza respinta, dal momento che il suo Paese di origine, la Moldavia, era inserito nella lista dei Paesi considerati sicuri dal governo della Repubblica Ceca. Tuttavia, tale designazione si caratterizzava proprio per l’esclusione territoriale della Transnistria, considerata al di fuori del controllo effettivo del governo moldavo. La Corte Regionale di Brno ha perciò rinviato la questione alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea, chiedendo se la Direttiva 2013/32/UE potesse essere interpretata in modo da designare uno Stato come sicuro anche se tale valutazione non si applicasse all’interezza del suo territorio. Nel sottoporre tale questione la Corte Regionale ha altresì fatto riferimento al fatto che la Moldavia aveva da poco fatto ricorso all’art. 15 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo: si tratta dell’articolo che permette agli Stati aderenti alla Convenzione di derogare ai propri obblighi (salvo alcuni ritenuti inderogabili) in caso di guerra o di altro pericolo pubblico che minacci la vita della nazione.

La sentenza 

Le questioni pregiudiziali sottoposte alla Corte di giustizia europea sono state dunque le seguenti: 

1) Se un Paese che ha esercitato il diritto di deroga di cui all’art.15 della CEDU con il quale può derogare alle obbligazioni da questa derivanti, può ancora essere considerato un Paese sicuro. 

2) Se gli articoli 36 e 37 della Direttiva 2013/22 impediscono di considerare un Paese terzo come sicuro se non lo sono tutte le sue parti.

3) In caso di esito positivo delle questioni pregiudiziali precedenti, la Corte è stata chiamata a valutare se, ai sensi degli artt. 46 e 47 della Direttiva, il giudice di rinvio possa – nel procedimento principale – procedere al riesame d’ufficio della qualifica del Paese terzo come sicuro in ottemperanza al principio del ricorso effettivo previsto nel diritto dell’Unione.

Per quanto riguarda la prima questione la Corte ritiene che l’articolo 37 della Direttiva 2013/32, in combinato disposto con l’Allegato I della stessa, deve essere interpretato nel senso che un Paese terzo non cessa di soddisfare i criteri che gli consentono di essere designato come Paese di origine sicuro per il solo fatto di invocare il diritto di derogare agli obblighi previsti dalla CEDU, ai sensi dell’articolo 15 di tale Convenzione, fermo restando che le autorità competenti dello Stato membro che ha effettuato tale designazione è tenuto a valutare in ogni caso se le condizioni per tale designazione permangono oppure no. 

La Corte chiarisce che l’art.37 della Direttiva in combinato con l’Allegato I deve essere interpretato nel senso che non consente di designare un Paese terzo come sicuro qualora alcune parti del suo territorio non soddisfino le condizioni materiali per tale designazione. In particolare, dal ricorso all’espressione “generalmente e uniformemente” e dal fatto che la legislazione si riferisce a un “Paese” e non a parti di esso, la Corte di Giustizia dell’UE ha concluso che un Paese può essere classificato come sicuro solo se tale sicurezza è garantita in modo generale e uniforme su tutta la sua superficie territoriale

Anche se chiamata a rispondere sulla questione territoriale nello specifico, la Corte fornisce una lettura complessiva dell’art. 37 della Direttiva 32/2013 ricordando che questo sostituisce il precedente articolo 30 della Direttiva 85/2005 in base al quale: “(…) 3. Gli Stati membri possono altresì mantenere la normativa in vigore al 10 dicembre 2005, che consente di designare a livello nazionale una parte di un paese sicura o di designare un paese o parte di esso sicuri per un gruppo determinato di persone in detto paese, se sono soddisfatte le condizioni di cui al paragrafo 2 relativamente a detta parte o a detto gruppo”.

La precedente Direttiva consentiva quindi la possibilità di designare un Paese sicuro con esclusione di parti di territorio o categorie di persone, ma tale possibilità è stata abrogata dalla Direttiva attualmente in vigore, sottolinea la Corte.

A proposito dell’esclusione di categorie di persone, al punto 68 della sentenza la Corte sottolinea che la designazione di un Paese come paese di origine sicuro dipende (…) dalla possibilità di dimostrare che, in modo generale e uniforme, non si ricorre mai alla persecuzione quale definita all’articolo 9 della direttiva2011/95, tortura o pene o trattamenti inumani o degradanti”.

Sul terzo punto la Corte si pronuncia positivamente chiarendo che si rileva necessaria una verifica d’ufficio da parte del giudice del rinvio rispetto alla legittimità della designazione di un Paese come sicuro. L’articolo 46 della Direttiva 2013/32 riguarda il diritto a un ricorso effettivo per i richiedenti protezione internazionale. Al paragrafo 1, riconosce ai richiedenti il diritto a un ricorso effettivo dinanzi a un giudice contro le decisioni relative alla loro domanda. Il paragrafo 3 definisce la portata di questo diritto a un ricorso effettivo, specificando che gli Stati membri devono garantire che l’organo giurisdizionale davanti al quale viene impugnata la decisione sulla domanda di protezione internazionale svolga “un esame completo ed ex nunc sia dei fatti che del diritto, compreso, se del caso, l’esame del diritto alla protezione internazionale. Tale orientamento appare ulteriormente condivisibile alla luce del principio di leale cooperazione che gli Stati Membri devono rispettare nell’applicazione del diritto unionale, cosi come disposto dalla CGUE nel parere n. 1/09 dell’08/03/2011.

La Corte afferma che l’utilizzo della categoria del “Paese di origine sicuro” non può derivare automaticamente dalla mera inclusione di quel Paese nella lista dei Paesi di origine sicuri, ma deve essere oggetto di una valutazione attualizzata del giudice, da riferire (ex nunc) non al momento di adozione della lista ma al momento della decisione. Nel caso dell’Italia, il giudice nazionale, sulla base della nuova sentenza, potrebbe disapplicare il decreto interministeriale sui Paesi sicuri nella parte in cui viola l’obbligo imposto agli Stati membri ai sensi dell’art. 37, par. 2 e del considerando 48 della Direttiva di provvedere quando “a conoscenza di un cambiamento significativo nella situazione relativa ai diritti umani in un Paese designato come sicuro” ad un riesame di tale situazione e, ove necessario, rivedere la designazione di tale Paese come sicuro.

I possibili effetti in Italia

Questa sentenza rappresenta una svolta rispetto all’interpretazione più ampia dell’art.37 della Direttiva cui hanno fatto ricorso gli Stati membri finora. I giudici italiani ed europei saranno vincolati all’applicazione dei principi in essa sanciti, ponendo un importante criterio alla designazione di Paese sicuro. Le sentenze interpretative della Corte di giustizia Ue e i principi in esse enunciati sono vincolanti nel procedimento principale nell’ambito del quale è stata sollevata la questione pregiudiziale e per gli altri Stati Membri. Inoltre, la validità della sentenza è retroattiva: gli effetti retroagiscono sino al momento dell’entrata in vigore della norma oggetto dell’interpretazione.

Per quanto riguarda l’Italia, l’art. 2-bis comma 2 del D.lgs. n. 25 del 2008, che stabilisce che “la designazione di un Paese di origine sicuro può essere fatta con l’eccezione di parti del territorio o di categorie di persone”, si trova chiaramente in contrasto con la sentenza C-406/22 della Corte. Secondo il decreto del Ministero degli Affari Esteri dello scorso 7 maggio, la lista di Paesi sicuri aggiornata al 2024 comprende 22 stati, 15 dei quali sono designati sicuri a eccezione di aree del territorio o specifici gruppi di persone. Pertanto, la legislazione italiana dovrà adattarsi alla più recente interpretazione giurisprudenziale, in modo tale da considerare “Paesi sicuri” solo quegli Stati che lo sono nella loro interezza, senza eccezioni di porzioni territoriali o categorie di persone.

Ciò avrà ripercussioni significative anche per il ricorso alla procedura accelerata e in particolare alla procedura accelerata di frontiera che l’Italia si appresta ad applicare in via massiccia con il Protocollo con l’Albania

La sentenza è disponibile QUI.

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