La rete Slow Grains resiste alla crisi del grano

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Crisi idrica in Sicilia, temporali incessanti nel Nord Ovest. Quanto può resistere ancora la cerealicoltura italiana e come possiamo sostenerla? Slow Food Italia lancia una campagna per sensibilizzare sull’importanza di tutelare i grani tradizionali

Dalla Sicilia, è allarme produzione

«La siccità ci ha dato una grande batosta. Non ricordo una perdita di produzione così grave come quella di quest’anno». Alessandra Gioia è titolare dell’azienda agricola Feudo Chibò e Barbarigo. Siamo nell’entroterra siciliano tra Caltanissetta e Palermo, nel comune di Petralia Sottana. Qui Alessandra coltiva circa 200 ettari di cui 70 a grano e il resto adibito ad altre coltivazioni come il pomodoro siccagno del Presidio. L’agricoltura le scorre nelle vene da generazioni, ma andare avanti è sempre più complesso. 

A causa della siccità, quest’anno la produzione è scesa dai venti quintali di grano per ettaro a due, tanto che in molti campi le spighe non sono neanche cresciute. Resa drammatica anche per i grani tradizionali, proprio quelli che fino ad ora si erano dimostrati più resistenti. È stata Alessandra a introdurli in azienda: «mio padre si occupava di grani convenzionali, io ho iniziato a recuperare e riscoprire quelli tradizionali» racconta la produttrice, che è custode della varietà Maiorca e Gioia, «la prima è un vecchio grano tenero che un tempo veniva usato in pasticceria e per le cialde dei cannoli, la seconda è ottima per la pasta. Oggi li conoscono in pochissimi e il nostro compito deve essere proprio quello di rieducare a questo gusto antico, per farne conoscere e apprezzare i valori». Ma se non c’è conoscenza, non c’è prezzo equo, e non c’è mercato.

Il grano siciliano è sempre meno, gli agricoltori sono sopraffatti da quello estero che «matura con prodotti chimici, mentre qui matura col sole. E così non è difficile, per tanti coltivatori, cedere alle proposte delle grandi multinazionali che installano pannelli fotovoltaici a prezzi allettanti».

I sussidi? L’unico ricevuto è stato per il fieno, in quantità minima. Alessandra spiega che dovrebbe arrivarne un secondo per la siccità, ma comunque irrisorio. «Sono molto preoccupata e infatti ad oggi non abbiamo ancora preparato i terreni per la nuova semina. Noi coltivatori di grani tradizionali abbiamo sempre resistito in qualche modo, ma da due anni a questa parte è davvero difficile».

Nell’Oltrepò Pavese, dove la resistenza è sinonimo di rete

Situazione opposta quella del Nord Ovest, dove la produzione cerealicola è stata piegata dalle incessanti piogge. A raccontarci la resistenza nell’Oltrepò Pavese è Giorgio Bertelegni, produttore e referente dell’Associazione Grani di Tradizione dell’Oltrepò. Un gruppo di 13 coltivatori che nel 2017, dal contatto con l’esperienza toscana dell’Associazione dei Grani Antichi di Montespertoli (Fi), ha iniziato a introdurre in zona una miscela di grani tradizionali.

Con risultati sorprendenti: «Ormai dalle nostre parti si seminavano solo grani selezionati per pianura, quelli che si trovavano in commercio e che fornivano i distributori – racconta Giorgio -. L’Oltrepò è sempre stato il granaio della provincia di Pavia, in particolare la parte pedemontana e montana. La collina soffre di più della pianura, qui dobbiamo puntare sulla qualità e avere un prodotto buono, giusto».

La sperimentazione è iniziata con il grano Verna e oggi gli agricoltori dell’Oltrepò coltivano una popolazione che contiene di Verna, Gentil Rosso, Frassineto, Andriolo, Vittorio Veneto, Olona, fornitagli dai colleghi fiorentini e altri grani tradizionali in mix.

«Ci abbiamo creduto subito, perché non è solo questione di fare del grano, della farina, di seminare: è come lo si fa, è il messaggio che si porta». Giorgio racconta che poco distante c’è un panificio industriale che produce 9000 baguette all’ora, surgelati per supermercati, in gestione automatizzata. «Ma che farina mangiano le persone? Che pane è?»

Sicuramente ben diverso da quello ottenuto dai loro grani tradizionali, coltivati in una vallata, dove l’uniformità industriale lascia il passo alla diversità. I terreni sono differenti tra loro, il pane che se ne ottiene ha un sapore e una consistenza diversi, una durata superiore. Perché «L’industria oggi vuole un prodotto standard, il pane deve costare il meno possibile. Ma è la diversità che fa la qualità» prosegue il produttore.

Alla domanda su quale sia stata la principale difficoltà, Giorgio racconta la fatica di chiudere il cerchio della filiera. «I vecchi mulini a pietra hanno chiuso tutti, quindi è difficile anche trovare i mulini giusti, che consentono di mantenere il germe del seme». Così come trovare chi sappia lavorare queste farine: «nel 70% ti dicono di no: noi abbiamo contattato alcuni panettieri locali che all’inizio panificavano con i nostri grani un paio di volte a settimana; oggi, chi ci crede sta togliendo gli altri pani per dare più spazio ai nostri, ed è la soddisfazione più grande»

E poi la necessità di arrivare alle persone, di rieducarle affinché capiscano la differenza rispetto a quando l’organismo viene nutrito con farine addizionate, eccessivamente raffinate, cariche di amidi.

I progetti futuri? «Sarebbe bellissimo avere un mulino condiviso, e poi continuare la sperimentazione per tutelare questi preziosi cereali». Il gruppo di agricoltori è coeso: «se si arriva da qualche parte, ci si arriva insieme. Ci vuole un senso di comunità» chiude l’agricoltore.

Alessandra e Giorgio, insieme a centinaia di produttori, trasformatori, fornai, aderiscono a Slow Grains, la rete che recupera varietà locali di cereali, coltivandole e trasformandole. Nelle prossime settimane, Slow Food Italia e l’Alleanza Slow Food dei Cuochi si uniscono ai custodi dei grani per valorizzare la biodiversità cerealicola italiana grazie alla campagna Tutta farina del nostro sacco!

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