Antonio Tajani scuote la testa. Sospira. «Non si può. Senza l’America l’Europa non può fare qualcosa di utile per la tregua in Ucraina». In una stanza al secondo piano di un hotel nel centro di Bruxelles il ministro degli Esteri prende una penna e inizia a scrivere su un foglio bianco. A sinistra gli Stati Uniti, la Nato, a destra l’Europa, la Russia. In mezzo, l’Ucraina di Volodymyr Zelensky giunta a un bivio storico.
Trattare e scendere a patti con Putin, l’invasore. O far saltare il tavolo e continuare a sparare nelle trincee, finché Donald Trump non chiuderà i rubinetti degli aiuti militari americani. Sembrava che la prima strada, dopo quasi tre anni, si fosse fatta in discesa. Con l’apertura di Zelensky ai negoziati, il grido di aiuto sul Donbass e la Crimea. Poi ha parlato Putin e la salita si è fatta di nuovo ripidissima. Tajani ascolta il discorso in diretta, i diktat del presidente russo in sottofondo. E l’ottimismo iniziale su una soluzione negoziale inizia a sfumare. «Putin parla di compromesso. Bene, ma le parole non bastano. Devono seguire i fatti» taglia corto il vicepremier.
Reduce a Bruxelles da una girandola di incontri con i leader del Partito popolare. Alcuni in prima fila nella crisi ucraina. Come Donald Tusk, il presidente polacco che mercoledì sera si è attovagliato alla cena del segretario generale della Nato Mark Rutte insieme a Zelensky e la premier Giorgia Meloni. Trovare una quadra europea non è semplice. Farlo insieme agli Stati Uniti di Trump, ripete Tajani, è un imperativo. E il pensiero corre a chi in queste ore difende la linea durissima in Europa, dai Baltici ai polacchi, e dice: avanti con le armi.
E l’Italia? «Dobbiamo essere pontieri con gli Stati Uniti, i buoni rapporti tra Meloni e Trump aiutano». Guai a muoversi in ordine sparso, ammonisce insomma il capo della Farnesina e il rischio non è peregrino se qualcosa hanno insegnato i primi quattro anni di Trump alla Casa Bianca. «Non possiamo dividere l’Occidente. La storia insegna: la sua forza è tenere uniti i due pilastri, America ed Europa. Abbiamo dimenticato la Seconda guerra mondiale?».
Fuori dalla stanza dell’hotel procede il via vai dei Popolari. Manfred Weber, Ursula von der Leyen, il greco Mitsotakis. Tajani riprende carta e penna. Abbozza una cartina geografica, torna sulla guerra ai confini europei. E l’analisi è la seguente: «C’è la sensazione di un momento di svolta. Un pressing da entrambe le parti per arrivare a una soluzione negoziale. Ma prima la Russia deve smettere di fare la guerra». Inutile pensare al dopo, se i proiettili ancora fischiano nelle trincee. Infatti il ministro e leader di Forza Italia frena. Si mostra cauto, ad esempio, sulla proposta di un contingente europeo di peacekeepers da schierare al confine ucraino, lanciata fra gli altri dal ministro della Difesa Guido Crosetto. E se lui stesso ha lavorato a lungo con il presidente svizzero Ignazio Cassis per la prossima “conferenza di Pace” che dovrà vedere russi e ucraini seduti al tavolo, sa bene che la realtà sul campo parla di guerra e di una guerra che non accenna a fermarsi. «Io credo che anche i russi però abbiano capito che non possono proseguire – riprende, ed ecco lo sguardo posarsi sullo scenario mediorientale che toglie il sonno al Cremlino – la Siria è stata un colpo duro per Putin, la Russia non riesce a fare due guerre contemporaneamente». Dunque che fare? Citofonare Trump, per cominciare: è soprattutto nelle sue mani la sorte del conflitto che da tre anni macchia di sangue l’Ucraina. Sul punto Tajani si mostra cautamente ottimista. E spiega che no, Trump non staccherà la spina da un giorno all’altro come in tanti temono: «È un leader molto pragmatico, non vorrà cedere a Putin. Si intesterà il processo di pace. Dobbiamo lavorarci anche noi. Insieme all’America.