Racconto brave di: #Gianfranco Maccaferri
Le sei meno un quarto del mattino, il freddo mi fa tremare, cammino veloce verso l’ingresso della fabbrica dove lavoro
oramai da tre mesi. Sono pochi quelli che hanno voglia anche solo di salutare. Le espressioni di tutti gli uomini che
varcano il cancello sono devastate dall’orario impossibile, dal pensiero di ciò che accadrà nelle prossime ore, dal dover
condividere otto ore della loro giornata con persone che non hanno scelto e con altre con le quali non vorrebbero passare neppure un minuto.
Eppure tutti entrano, timbrano, vanno verso gli spogliatoi, si tolgono i vestiti per poi infilarsi la tuta da lavoro, si dirigono verso il proprio reparto, salutano il collega al quale danno il cambio e iniziano il lavoro.
I rumori dei reparti per me sono spaventosi: non sento i colleghi cosa dicono, non riesco ad ascoltare neppure la mia
voce, non condivido nulla con gli altri se non il disagio di un luogo di cui ho paura.
È tutto troppo enorme, troppo pericoloso, troppo innaturale. Ogni cosa ha dimensioni esagerate e se ti distrai il pericolo è ovunque.
Capisco che per tutti quelli che lavorano in quest’acciaieria è davvero difficile varcare quel cancello, ma so il perché in
molti si sono abituati a farlo con indifferenza: sono le otto ore della vita che permettono di avere uno stipendio alla fine del mese.
Quindi, silenziosamente, tutti accettano tutto.
Il mio lavoro consiste nell’aggiustare le resistenze dei forni elettrici. Devo sostituire le parti rotte, fuse, staccate, saldando il più velocemente possibile le parti nuove così che la produzione possa ripartire.
Nei forni cui faccio manutenzione entrano barre o rotoli di acciaio che devono essere scaldati e poi lavorati. I forni
raggiungono livelli altissimi di calore e quando si rompe una resistenza elettrica, quella produzione si ferma. Il forno si
deve raffreddare e poi io entro ad aggiustare il pezzo rotto. Alcuni forni sono cunicoli lunghissimi, altri dei pozzi circolari profondi, ma tutti sono angoscianti nel loro buio, nella polvere che ti entra ovunque, nell’odore forte, acre.
I responsabili dei reparti pretendono che io entri nel forno appena possibile per far ripartire la produzione: “Tu che sei un nero africano sei abituato al caldo, dai entra che a te non succede nulla”.
Fortunatamente devo lavorare in coppia e così il mio collega italiano inizia a inveire contro le richieste assurde dei
responsabili, chiedendo che la temperatura si abbassi almeno ai quaranta o cinquanta gradi prima di entrare.
Ma le risposte sono sempre le stesse: “E tu non entrare, fai luce e lascia che entri lui che non soffre il caldo anzi, nero
com’è una volta entrato nessuno più lo vede… lo dimentichiamo dentro.”
Anche il mio collega ride sempre divertito di queste battute. Io ne sono terrorizzato!
Sono stati i miei genitori a insegnarmi sin da piccolo che se volevo sopravvivere dovevo abbassare lo sguardo,
rispondere alle domande guardando per terra, ignorare gli insulti, tacere.
Infatti io sono sopravvissuto al villaggio, ai guerriglieri, ai miei amici che ancora bambini avevano un mitra tra le mani, ai soldati del governo, ai capi villaggio che vendevano qualunque cosa e chiunque pur di arricchirsi.
Questi miei compagni di lavoro sono dei buffoni a confronto, ma è la fabbrica che mi fa paura.
Quando non dobbiamo intervenire dentro qualche forno, il mio collega ed io stiamo tranquilli chiusi nell’officina. Lui
guarda i siti pornografici, io ascolto musica. Non abbiamo nulla da dirci o da raccontarci. Da quando gli ho detto che a me non interessa vedere i video sul sesso lui ha iniziato a chiamarmi finocchio. Mi ha rotto le scatole per settimane
chiedendomi se anch’io avevo il pene grande come quello dei neri che lui vede nei video porno. Non ho mai risposto.
Pochi sono i ragazzi che mi salutano in fabbrica, quasi tutti mi guardano male perché sono stato assunto io al posto di un loro parente, di un loro amico, di un bianco… io ho rubato il lavoro a un italiano.
Ma io ho fatto un corso da saldatore: per sei mesi ho vissuto con i trecento Euro che mi dava l’agenzia del lavoro, ho
imparato a saldare per ore e ore, mi hanno insegnato a fare bene questo lavoro, sono risultato il primo del corso e così questa acciaieria mi ha assunto. Non devo dire grazie a nessuno se non all’agenzia del lavoro che mi ha permesso di imparare un mestiere!
Ogni volta che tento di spiegarlo ai colleghi la risposta è sempre la stessa: “Aiutano i neri e agli italiani nessuno pensa”.
Ma davvero qualche ragazzo italiano farebbe un corso di sei mesi, otto ore tutti i giorni, con trecento Euro al mese e
senza la sicurezza di essere poi assunto? Se la risposta è sì, perché non hanno aderito al corso? E perché quei due o tre
che si erano iscritti, dopo pochi mesi hanno abbandonato? Io non lo so il perché, ma è andata così.
Sono stato assunto insieme con altri due ragazzi italiani che si occupano del controllo qualità. Al primo giorno ho notato che con loro due gli operai erano gentili, con me spesso solo degli sguardi di fastidio e qualche parola con eloquente sputo a terra. Dopo i primi giorni che ci s’incontrava e si facevano due chiacchiere per raccontarci le esperienze d’inserimento, ho notato che hanno iniziato ad ignorarmi e io ho smesso di cercarli.
Tra me e il mio collega sono io quello che salda, lui deve solo assistermi. Tutti i capireparto però si rivolgono a lui per
spiegare il lavoro da fare e le tempistiche. Anche quando telefonano in officina per un intervento, se rispondo io tutti mi dicono che vogliono parlare con lui.
A me interessa poco essere considerato qui dentro, ma non capisco perché non parlano con me. Il responsabile
dell’officina da cui dipendo, che vede queste situazioni assurde, mi guarda e sorride, allora anch’io sorrido. In fondo per me l’importante è lo stipendio alla fine del mese e arrivare alla timbratura di uscita senza essermi fatto del male. Alla mensa io mangio molto, così per casa mi basta fare poca spesa. La carne la mangio in mensa a sufficienza per il mio fisico. Difficilmente qualcuno si siede vicino a me, così a volte vado al tavolo dove ci sono altri extracomunitari; la
maggioranza di questi ragazzi sono addetti alle pulizie o fanno dei lavori davvero pesanti, ma tutti sono dipendenti di
aziende esterne. Quando invece mi siedo al tavolo con i pochi ragazzi italiani che conosco arriva sempre qualcuno a fare delle battute assurde: “Guarda che il nero ha un cazzo che se te lo ficca nel sedere te lo squarcia”. Davvero non capisco il perché dicano queste cose: non mi hanno mai visto nudo e non mi è mai venuto in mente di fare sesso con i ragazzi con cui mi siedo a tavola.
Oppure: “Non so cosa mangia a casa sua, ma ha un odore… come cazzo fate a stare seduti vicino a questo nero.”
Ma come, io che mi faccio la doccia tutti i giorni, che uso il deodorante, che mi cambio la tuta da lavoro ogni due giorni…
io vengo accusato di puzzare? Perché dicono queste cattiverie?
Fortunatamente ci sono dei ragazzi della mia età che mandano a quel paese gli operari che mi offendono e continuano a chiacchierare con me, ma sono pochi, la maggioranza preferisce adeguarsi agli uomini adulti.
I primi giorni di lavoro volevo scappare lontano, rifugiarmi in casa, tornare da dove ero partito, abbandonare tutto e tutti.
Fortunatamente degli operai davvero bravi, ogni volta che sentivano e vedevano le scene di cattiveria nei miei confronti, mi venivano vicino e mi dicevano di non farci caso, che purtroppo al mondo esistono i deficienti, di pensare alla mia vita, al mio futuro.
Spesso mi è capitato di piangere nel mio letto, al buio. Sono spaventato da questa fabbrica.
Io sono venuto in Italia perché volevo una vita in un paese occidentale, volevo costruirmi da solo il mio futuro, ma non
sapendo cosa voleva dire sentirsi diversi, ho fatto davvero fatica a superare quei primi giorni in fabbrica.
Finito il turno si va tutti negli spogliatoi per cambiarci. Io non faccio la doccia, preferisco farmela a casa in modo da evitare scene e battute pesanti. Ma tutti i giorni c’è sempre qualcuno che deve raccontare qualcosa sul mio ipotetico cazzo enorme, sulla mia necessità animale di inculare o violentare qualcuno, sul mio spargere pidocchi, sul mio odore, sulle malattie infettive che posso trasmettere, sul fatto che magari domani non mi rivedono perché, finalmente, mi hanno fatto tornare in Africa.
Io non ho mai risposto. Li lascio ridere, ma non capisco il perché di queste cattiverie.
Pensavo che trascorso il primo periodo tutto terminasse e invece sembra che facciano a turno a dire queste crudeltà e tutti i giorni vengono ripetute. Nessuno gli dice di smetterla e se qualcuno a volte sussurra: “Ma dai, anche lui è qui per lo stipendio, lasciatelo in pace”, la situazione peggiora: parte l’elenco dei motivi per i quali io non dovrei essere qui a lavorare assieme a loro.
Molti mi hanno detto che sarebbe stato meglio se il mio barcone fosse affondato nel Mediterraneo o che le navi italiane dovrebbero sparare contro le imbarcazioni dei profughi così noi neri la smettiamo di invadere l’Italia.
Il problema è che chi mi offende lo fa urlando e cercando l’approvazione di tutti, chi mi difende… sussurra!
Nello spogliatoio mi cambio i vestiti velocemente e silenziosamente, poi esco sorridendo e salutando tutti. Vado a
timbrare con passo veloce, quasi correndo.
Varcato il cancello faccio un grosso respiro, solo in quel momento mi sento libero.
Arrivato a casa, mi faccio la doccia, mi sdraio sul letto e dormo un paio d’ore.
Ho capito che per vivere sereno devo racchiudere la fabbrica nelle otto ore e che dopo aver timbrato non ci devo più
pensare. Non serve a nulla dedicarci pensieri, preoccupazioni, angosce perché tanto non posso modificare le otto ore del giorno dopo.
Alla fine del pomeriggio normalmente esco con degli amici africani molto simpatici e tutti i giorni facciamo chilometri a piedi passeggiando, ridendo, scherzando.
A volte invece m’incontro con dei ragazzi italiani che conosco e che sempre m’invitano a bere un aperitivo con loro.
Spesso mi presentano ad altri loro amici e così adesso conosco molta gente in questa città. Sono ragazzi bravi, persone che non mi hanno mai fatto sorgere il dubbio di essere in un ambiente a me ostile. Con loro si parla di tutto: divertimento, innamoramenti, vestiti, progetti, iniziative… frequentano bar e pub, discoteche e locali che hanno sempre della buona musica e così io posso ballare. Quando ballo sto bene, mi diverto, spesso sono in primo piano e mi sento importante perché la musica mi entra dentro il corpo, mi ritma ogni movimento e molti ragazzi e ragazze mi guardano mentre mi esibisco.
In quei momenti sono felice di essere in un paese occidentale. Mi godo tutta quella felicità perché sono certo di vivere
esattamente quello che sognavo quando ero nel mio villaggio.
Le poche volte che qualcuno mi ha offeso durante le serate, sono stato difeso dai miei amici e spesso sono stati i
proprietari dei locali ad allontanare i cretini razzisti dalla discoteca.
Non ho mai incontrato i colleghi di lavoro nelle mie serate, solo alcuni operai giovani, quelli con i quali a volte mi siedo alla mensa per mangiare insieme.
I miei amici italiani stanno attenti dove si va alla sera. Apertamente e senza nascondere la situazione valutano che è
meglio non andare a mangiare in quel ristorante perché il proprietario è uno che non accetta i neri, che in quel bar è pieno di ignoranti razzisti, che in quella discoteca i buttafuori non mi farebbero mai entrare. In sostanza mi salvaguardano da spiacevoli situazioni di razzismo.
Questa città mi sembra divisa in due: da una parte quelli gretti, ignoranti, razzisti, ma che so essere persone normali,
brave ma chiuse nel loro mondo; dall’altra la gente curiosa di conoscere, sempre gentile e disponibile verso gli altri,
perlomeno all’apparenza. Questi due mondi paralleli non si parlano, non si divertono e non fanno nulla insieme. Sono
anche separati come quartieri, frequentano bar e discoteche diverse, mi hanno detto che anche le scuole sono differenti.
Per strada, passeggiando, vedo che è raro che qualcuno dei miei amici saluti o si fermi a chiacchierare con ragazzi che
non fanno parte della cerchia allargata del gruppo. È anche capitato che qualche ragazzo o ragazza abbia detto ai miei
amici: “Ma che cazzo ci fate insieme a un nero?”. Loro hanno sempre ignorato questo tipo di domande per non creare
discussioni inutili e per non rompere delle amicizie magari nate molti anni prima. Io faccio finta di non sentire, ma capisco il loro imbarazzo. Mi sembra di essere in una città dove realmente esistono due umanità diverse. Forse è una questione culturale, di educazione, di studio, di intendere il dare e l’avere o forse nell’interpretare il senso della vita, certo una esclude l’altra nei rapporti personali e raramente queste due umanità sono accomunate nel lavoro o nei rapporti sociali.
Ma in fondo è un problema loro. Come io ho imparato a togliermi l’odio verso tutti che avevo dentro e a essere tollerante, anche la gente di questa città dovrà imparare a esserlo.
Nel gruppo dei miei amici italiani ci sono due ragazzi gay. Inizialmente io ero molto prevenuto nei loro confronti, poi ho capito che non aveva senso che fossi proprio io l’intollerante, così mi sono lentamente avvicinato a questi due ragazzi che mi hanno spiegato una cosa importante: non c’è nulla d’interessante in famiglie o in persone ignoranti, violente fisicamente e verbalmente, con una cultura basata sui talk show demenziali televisivi.
Loro sostengono che non è vero che queste persone sono comunque brave e buone o che bisogna conoscerle per
scoprire le cose belle che hanno dentro; in realtà sono solo dei razzisti, perfidi, feroci, prepotenti nei loro pensieri e nel loro rapportarsi a chiunque è diverso: neri, omosessuali, musulmani, zingari…
Siamo concordi nel dire che c’è molta differenza dall’essere gay o nero nelle classi operaie, incolte, oppure l’esserlo in
una comunità acculturata, intellettuale, artistica…
Ne vale spesso la sopravvivenza. Certo la violenza è intrinseca nella società, qualsiasi tipologia di comunità non ne è
immune, ma ci sono modi diversi di vivere ed esprimere il disagio per il “diverso da se stessi”.
I miei due amici gay sperano di non dover mai entrare in una delle fabbriche cittadine perché sanno che verrebbero
umiliati, massacrati, violentati …e forse non solo con le parole. Spesso mi ripetono che hanno grande stima di me perché riesco a sopravvivere otto ore tutti i giorni in quell’inferno d’ignoranza e di cattiveria umana.
Io non ho mai raccontato a nessuno cosa ho visto nel mio villaggio a proposito di intolleranza, razzismo, violenza… penso spesso i miei piccoli amici che dopo essere rimasti orfani sono stati arruolati come soldati e poi spariti.
Spesso vi viene in mente il camioncino passato proprio vicino a casa mia il giorno prima che partissi per l’Europa, si è
fermato davanti a casa e il terrore si è impossessato di tutti i miei famigliari. Sono scesi tre ragazzi vestiti da guerriglia… erano gli unici tre miei amici sopravvissuti a quel pazzesco gioco della guerra ed erano venuti a salutarmi dopo anni che non ci vedevamo. Tutti e tre mi hanno detto: “Scappa da qui, tu che puoi.”
Io so come sopravvivere al razzismo e alle umiliazioni.
Una sera ho invitato i miei amici italiani a venire a una festa africana organizzata da una cooperativa sociale che lavora
per l’immigrazione. È stato fantastico vedere il loro stupore nell’essere coinvolti nei nostri balli, nella nostra allegria,
nell’assaggiare il nostro cibo.
Io ovviamente li avevo avvisati di stare attenti perché molti immigrati non sono proprio dei santi, ma per fortuna non è successo nulla. La cosa più divertente è stata che le ragazze sono uscite dalla festa con la consapevolezza che i loro
amici o fidanzati italiani difficilmente reggono il confronto con la bellezza fisica dei ragazzi neri.
Ci tenevo invece far capire ai miei amici africani che in questa città ci sono anche dei ragazzi italiani che non hanno
pregiudizi nei nostri confronti, che amano il confronto, che sono curiosi di conoscerci, che cercano lo stare bene insieme.
Ovviamente esistono affinità o antipatie, come è normale che sia, ma da queste piccole cose, se si vuole, possono
nascere amicizie anche importanti.
È stato divertente l’approccio timido dei miei amici africani con le ragazze: non essendo abituati a guardare direttamente negli occhi le donne e avendo un’educazione di avvicinamento lento verso l’essere in confidenza con una ragazza, sono stati sorpresi e molto eccitati dal vedere l’intraprendenza tutt’altro che pudica delle ragazze che ballavano con loro, che bevevano con loro, che gli si sedevano accanto per chiacchierare.
Da quella serata fortunatamente sono nate altre amicizie e forse anche un innamoramento… ma noi africani siamo molto riservati in queste cose e quindi non ne sono certo.
I miei amici italiani insistono perché abbandoni la fabbrica dove lavoro, che non è giusto che io viva nell’offesa e nella
paura. Ma io ho bisogno di quello stipendio. Spiego loro che quelle otto ore al giorno sono un incubo che svanisce
quando timbro l’uscita. È vero che quando entro in fabbrica smetto di vivere, di avere una dignità, ma questo è il prezzo che devo pagare come immigrato per poter vivere felicemente il resto della mia vita.
Io so che le mie otto ore in fabbrica saranno sempre terribili, piene di paura e di angoscia anche quando (forse un giorno succederà) nessuno mi farà notare, con parole o sputando per terra, il mio essere un nero afro-italiano.
Articolo già pubblicato su: http://www.gaiaitalia.com