Come vivere al meglio il Giubileo? Come fare in modo che la ritualità prevista non rimanga solo esteriorità ma cambi il cuore e porti alla conversione? E come permettere alla gratuità di Dio di non essere confusa con buonismo, o peggio dimenticata a favore di un rapporto do ut des con l’Altissimo?
Siamo in una prospettiva di seria riflessione, la stessa di Martin Lutero che si chiedeva «Come posso avere un Dio misericordioso?». Papa Benedetto XVI, commentando il padre della Riforma, dice che la domanda lo penetrava, animando la sua ricerca teologica e la sua lotta interiore.
Quella domanda che interroga tutti: “In chi posso sperare?”
E noi? Dopo aver vissuto un giubileo straordinario dedicato alla misericordia nel 2015, che cosa possiamo aspettarci dal giubileo che abbiamo appena iniziato? Viene da dire che alla domanda sulla misericordia si aggiunge quella fatta anche dai filosofi: “cosa posso sperare?”, meglio declinata al personale “In chi posso sperare?”. La vera prospettiva di approfondimento è quella che permetterà ad ogni risposta di uscire dai circoli accademici, che rischiano di soddisfare la curiosità e l’intelletto, per diventare pungoli per una vita più cristiana.
Ci viene in aiuto per questo compito un piccolo volume dal titolo semplice e dal sottotitolo intrigante: Vivere il Giubileo. Una introduzione teologica (di G. Lorizio e M. Staffolani, Editrice Ave, Roma 2025, 107pp). Non dobbiamo lesinare sugli interrogativi. Affrontare tematiche importanti legate alla pratica giubilare è, anzi, doveroso: a cosa serve il pellegrinaggio? Che significa passare per la Porta Santa? Perché c’è bisogno di chiedere l’indulgenza se già abbiamo il sacramento della confessione?
In un centinaio di pagine, a mo’ di vademecum, troviamo spiegato in questo agevole testo che il pellegrinaggio è un segno peculiare dell’Anno Santo perché diventa icona del cammino che ciascuno di noi è chiamato a compiere nella sua esistenza verso una mèta ben definita ed impegnativa. La vita come pellegrinaggio è da collegare all’antica fede del popolo eletto: «“ ’arammî ’obed ’abî” Mio padre era un arameo errante (Dt 26,5). La formula di fede o “credo storico” del pio israelita, da pronunciarsi unitamente all’offerta delle primizie, ci consegna un prezioso aggancio per continuare a pensare il cammino dei pellegrini in occasione del Giubileo» (p. 39).
Il pellegrinaggio segna tappe di pentimento e di preparazione al rinnovamento interiore che il fedele deve accogliere e compiere nella sua vita ripercorrendo i passi della vita del maestro di Nazaret, vero predicatore itinerante. Il pellegrinaggio di Gesù, volto a farci comprendere che Lui è via verità e vita, non termina sulla terra ma si protende nell’oltre dell’eternità, attraversando la porta della morte. Allo stesso modo, siamo chiamati a vivere i nostri “passaggi” necessari, stretti e gravosi, che sono le tappe dell’esistenza che conducono al Regno promesso.
«Ci impegneremo ad essere misericordiosi con gli altri come il Padre lo è con noi»
In questa prospettiva il passaggio della porta Santa non è un rito scaramantico, né un atto di precetto o di obbligo, e nemmeno un’azione estrinseca della grazia che opera unilateralmente. Il passaggio richiede il “movimento”, l’adesione del credente. La parola a riferimento è l’“eccomi” proferito da tanti protagonisti biblici. È in piena libertà che si entra nella logica del Vangelo, per fare l’esperienza del Dio misericordioso e indulgente che ci chiama a vita nuova. Inoltre, come ricordato da Papa Francesco, in tale passaggio c’è un anelito alla comunione con gli altri: «Attraversando la Porta Santa ci lasceremo abbracciare dalla misericordia di Dio e ci impegneremo ad essere misericordiosi con gli altri come il Padre lo è con noi».
E, se come abbiamo detto, non dobbiamo frenare l’approfondimento, perché “una fede che non diventa cultura è una fede non pienamente accolta, non interamente pensata, non fedelmente vissuta” (Giovanni Paolo II) possiamo domandarci con gli autori «l’esperienza della misericordia nel contesto cattolico si vive [già] nel sacramento della riconciliazione […e] se così è perché invocare il dono dell’indulgenza? Non si rischia così di sminuire l’efficacia del sacramento?» (p. 19). Lorizio spiega «se dunque nel sacramento sperimentiamo la misericordia di Dio in rapporto ai peccati commessi, la prassi delle indulgenze radicalizza il perdono applicandolo anche alle pene» (p. 20) che ineriscono alla dimensione della giustizia.
Giubileo: occasione per arrivare alla conoscenza vera del Dio indulgente che abita i cieli
Da qui abbiamo diverse conseguenze che permettono di purificare la nostra immagine (che rischia di essere un idolo, o una riduzione) di Dio «in primo luogo, il dono dell’indulgenza si radica nel sacramento, senza il quale sarebbe privo di senso. In secondo luogo, i gesti richiesti perché tale dono possa essere ricevuto non costituiscono dei meriti che costringerebbero Dio a rimettere le pene […] piuttosto ci fanno comprendere che la gratuità della grazia è “a caro prezzo” e non la si può pretendere né ricevere superficialmente» (p. 20).
E ancora, il dono che il fedele riceve si ottiene nella Chiesa e per la Chiesa: «l’aspetto che maggiormente intriga, di questo assunto della dottrina [sull’indulgenza], consiste nella “comunione dei santi” che essa esprime. E questo non solo perché […] l’esperienza del Dio indulgente si vive nella comunità, ma anche e forse soprattutto perché possiamo invocare la remissione delle pene anche per i fratelli che ci hanno preceduto nel regno dei cieli» (p. 21). E nella prospettiva di una purificazione dell’immagine di Dio sarà tanto utile anche una previa purificazione del linguaggio, cioè «la necessità di pensare l’indulgenza che riceviamo, ma non acquistiamo o lucriamo, nella prospettiva del Dio di Gesù Cristo e della sua assoluta e gratuita misericordia» (cf p.11-14).
Ecco allora che “Vivere il Giubileo” non significherà altro che questo: passare per le indulgenze che riceviamo su questa terra, per arrivare alla conoscenza vera del Dio indulgente che abita i cieli.