Nella Bibbia sono conservati quattro Vangeli. La storia che raccontano è la stessa, ma le differenze sono varie e in certi casi notevoli. Personalmente, lo confessiamo, quello di Giovanni è il Vangelo con cui abbiamo spesso faticato di più. Facciamo un esempio: Marco, Luca e Matteo iniziano con genealogie e racconti di contesto: anche quando parlano di profezie, angeli e stelle, lo fanno con uno sguardo «dal basso». Luca premette pure una lettera didascalica di avvertenze.
Giovanni, no. Il suo incipit è una fucilata: «in principio era il Verbo, e il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio». Il quarto Vangelo, cioè, si apre con l’«inno al Logos» (Gv 1,1-18), un testo di rara potenza che unisce niente di meno che l’inizio della Genesi («In principio») con il lessico più incandescente della filosofia greca («il Logos») e su cui poggerà, tra le altre cose, uno dei fragili e insostituibili fulcri della fede cristiana in Dio Trinità. Già dalle prime righe si capisce perché il simbolo di Giovanni sia l’aquila che vola alto nel cielo.
Un gesto eloquente e il Gesù di Giovanni
Continuando la lettura, non è che negli altri Vangeli Gesù parli e agisca sempre con chiarezza cristallina, ma in Giovanni ti viene il dubbio che lo faccia apposta: quasi tutti i dialoghi sono sibillini, i gesti enigmatici e le sentenze taglienti (fin da Cana!). È affascinante, ma anche spigoloso, imprevedibile e quasi sempre per eccesso. Quando parla pronuncia lunghi e ardui discorsi, sia dibattendo con coloro che lo vogliono mettere alla prova (cf. Gv 5,15-47), sia istruendo i propri discepoli, tra l’altro spesso con scarsi risultati (cf. Gv 6,59-66; 14,1-11). Sa però essere anche lapidario, come quando risolve un infido tranello in quella sentenza: «chi di voi è senza peccato scagli la prima pietra», e forse addirittura ironico in quella domanda successiva: «dove sono? Nessuna ti ha condannata?» (cf. Gv 8,1-11).
In Giovanni, Gesù ha una postura enigmatica, sfuggente, quasi irritante, salvo poi arrivare all’ultima cena. Lì sa spiegarsi in modo chiarissimo (ma solo all’inizio, perché poi seguono altri capitoli con discorsi vertiginosi): compie cioè un gesto eloquente e lo accompagna con un commento che non lascia margini di fraintendimento: «Voi mi chiamate il Maestro e il Signore, e dite bene, perché lo sono. Se dunque io, il Signore e il Maestro, ho lavato i piedi a voi, anche voi dovete lavare i piedi gli uni agli altri. Vi ho dato un esempio, infatti, perché anche voi facciate come io ho fatto a voi» (Gv 13,13-15). Ogni tanto ci siamo chiesti: perché non è sempre così chiaro? Insomma, il rischio che si corre leggendo il Vangelo secondo Giovanni – o che per lo meno abbiamo spesso sperimentato – è di trovarsi di fronte un Gesù che cammina sulla terra come camminasse sulle acque, che guarda il cielo dall’alto, che predica per rompicapi.
Dal banchetto alla grigliata: l’invito a non andarsene e a condividere
Per questo, conserviamo e ritorniamo spesso alla preziosa osservazione di un amico, secondo il quale, invece, il Vangelo secondo Giovanni è affascinante per un motivo molto semplice: comincia con un banchetto in cui si bene vino buonissimo (Gv 2,10), e finisce con una grigliata di pesce in riva al lago (Gv 21,9). Il banchetto è quello di Cana, oggetto del nostro libro (Le Nozze di Cana nell’arte, Editrice Ave, ndr). La storia di quell’incredibile personaggio che è il Gesù di Giovanni – meglio ripeterlo – comincia e finisce in due modi umanissimi: condividendo del vino eccelso durante una festa e gustando del pesce fresco con gli amici più cari. Ne consegue che affrontare quel Vangelo cercando subito di capire tutto, come forse ci è capitato troppo spesso, non è forse il migliore dei modi. Meglio invece avvicinarsi come fosse l’invito a consumare un pasto insieme (si sta un sacco a tavola nel Vangelo di Giovanni), non andandosene fino alla fine e condividendo quel che viene offerto.
Opere e parole senza tempo
In questo libretto siamo quindi tornati a Cana – al «primo dei segni» – per rileggere Giovanni facendoci accompagnare dagli immaginari degli artisti, che con vertigini e profondità, luci ed ombre, simboli e immagini, si trovano a loro agio, non si spaventano troppo e non hanno l’ansia di far tornare tutti i conti.
Facendo attività di bracconaggio – tra i molti – dalle tele di Paolo Veronese e Jan Steen, dalle vetrate di Chartres e dai sarcofagi dei Musei Vaticani, dagli affreschi di Giotto e dai mosaici bizantini, abbiamo riflettuto di feste e umanità, anfore e sposi, cibi e bevande, soprattutto delle figure di Gesù e della madre. Alla fine, ci siamo permessi alcune riflessioni personali a margine di un altro immaginario celebre, non iconografico ma letterario, tratto da I Fratelli Karamazov di F. Dostoevskji, in cui il secondo capitolo del Vangelo di Giovanni appare a sorpresa, quasi fosse un sogno. Ci ha fatto bene. Speriamo possa essere altrettanto anche per qualcuno o qualcuna di coloro che leggeranno.