Indagare il rapporto uomo natura con un romanzo: Penultime parole di Cristò | Libri Mondadori

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 Penultime parole di Cristò: cosa accade quando il silenzio mette radici?

Che cosa succede agli esseri umani quando restano soli? Quando l'acqua che scorre nel fiume, i rumori del bosco, il brulichio degli insetti diventano l'unico linguaggio che esiste? Possono rinunciare all'empatia, diventare selvatici e vivere in simbiosi con l'ambiente? Possono davvero sopravvivere alla solitudine e all'assenza della parola?

Queste sono solo alcune delle domande legate al rapporto uomo natura su cui si sofferma Cristò in Penultime parole, il suo nuovo, originalissimo romanzo breve dal sapore fantastico.

Attraverso la scomparsa graduale di una famiglia che vive isolata ai margini di un bosco, al limitare di un paese che si sta spopolando, questo autore originalissimo, voce di riferimento della scena letteraria italiana indipendente, ci offre un'interpretazione poetica e metaforica di come gli esseri umani possano diventare selvatici.

Ma lasciamo che sia proprio Cristò a raccontarci qual è stata la genesi di Penultime parole.


Mettere in ordine le idee sul rapporto uomo natura, la parola a Cristò


Ho iniziato a scrivere Penultime parole circa tre anni fa spinto dall’esigenza di mettere in ordine alcune idee che riguardavano il rapporto tra l’essere umano e la natura. Mi sembrava, e mi sembra tutt’ora, che già parlare di rapporto sia possibile solo considerando l’essere umano come estraneo alla natura, o quantomeno concedendogli uno status di diversità, se non di superiorità, rispetto agli altri esseri viventi.

La lettura di alcuni saggi sui bambini selvatici – esistono molti casi documentati e studiati di bambini rapiti da animali o abbandonati dai propri genitori che sono sopravvissuti e cresciuti da soli o adottati da altri animali, lontani dalle società umane – mi ha convinto che questo apparente status di superiorità sia da attribuire al nostro tipo di linguaggio. Tuttavia, proprio in quei saggi, si dimostra che il linguaggio non è una capacità innata dell’essere umano visto che la grande maggioranza dei bambini selvatici riportati in società dopo i cinque o sei anni di vita non sono mai riusciti a parlare o, in pochi casi, hanno acquisito un linguaggio semplice che, per esempio, non consentiva loro di nominare oggetti che non fossero presenti alla loro vista o di pronunciare frasi relative a concetti, anche semplici, di astrazione.

Mi ha colpito molto il caso di una di queste bambine che, invece, ha imparato a parlare abbastanza bene e, a un medico che le chiedeva a come pensasse nel tempo della sua vita selvatica e senza parole, ha risposto: «Prima di imparare a parlare non pensavo».

Ho quindi cercato nel linguaggio l’illusione di questo rapporto apparentemente privilegiato, immaginando un processo inverso a quello del bambino selvatico che viene riportato in società e provando, invece, a trasformare un essere umano da sociale a selvatico.

Ciò che credo di aver trovato è un animale debole e complesso che, solo abbandonando le parole - il loro suono, il loro significato -, ritrova la propria coincidenza con la natura e dimentica finalmente l’illusione tutta umana della libertà.

Cristò


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Redazione Libri Mondadori