L’umanità alla porta - Azione Cattolica Italiana

Compatibilidad
Ahorrar(1)
Compartir

«Chiunque tu sia, se vuoi celebrare la gloria di queste porte, non ammirare né l’oro né la spesa, ma il lavoro dell’opera. Riluce la nobile opera, ma l’opera che nobilmente riluce illumina le menti per modo che esse possano procedere, attraverso vere luci, alla luce vera dove Cristo è la vera porta. Come esista nelle cose del mondo lo dimostra l’aurea porta: la cieca mente si innalza al vero attraverso ciò che è materiale e da oscurata che era si leva a vedere questa luce» (Suger, Liber de rebus in administratione sua gestis XXVII, 189).

Così scriveva Suger, artefice di una delle più rivoluzionarie visioni artistiche del Medioevo, nel descrivere il portale aureo della basilica di Saint-Denis. Non l’oro in sé, non la ricchezza materiale, ma la luce che da quell’oro si sprigiona come riflesso di una verità più profonda: la luce del Cristo, “vera porta” verso la salvezza (cf. Gv 10,9). Una luce che conduce le menti, anche le più cieche, a risollevarsi verso l’essenziale. A secoli di distanza, un’altra porta dorata si staglia nel cuore di Firenze. Non è fusa nel bronzo, ma cucita con fragili coperte isotermiche. “Eldorato: Nascita di una Nazione”, l’installazione di Giovanni de Gara, dal 25 marzo 2025, per desiderio dell’arcivescovo Gherardo Gambelli, avvolge le porte della Basilica della Santissima Annunziata con la stessa lucentezza che fascia la vulnerabilità di bambini, uomini e donne in cerca di salvezza, soccorsi sulle nostre strade e nel corso di traversate disperate.

Ricovero per l’umanità ferita

L’oro di chi cerca riparo riveste qui, nella zona liminare della basilica fiorentina, lo spazio che etimologicamente e teologicamente è simbolo di ricovero: in greco antico, infatti, limēn significa «porto, asilo, rifugio». La porta figura il passaggio per la salvezza dell’uomo, il confine di un’umanità che si rinnova nella rivelazione. La soglia è il luogo in cui, pur lasciando il mondo fuori, lo si porta – insieme alla propria vita – dentro il mistero, perché lì possa essere rigenerato. Ecco: la porta è limine, soglia che accoglie e spalanca all’Altro e all’altro da sé, che protegge e che interpella. Così, l’installazione di de Gara ci provoca con forza, ricordandoci che il varco non è necessariamente una frattura: può essere spazio di comunione, non di separazione; invito, non rifiuto. E lo fa oggi, in un tempo in cui il confine viene spesso concepito come barriera invalicabile, come linea da difendere anziché luogo da abitare. Un tempo in cui l’umanità si gioca proprio su quella soglia lì: nel riconoscere nell’altro un fratello, una sorella.

Torna alla mente, in questo senso, l’immagine degli abitanti di Lampedusa che, nel 2019, rimasero a dormire sul sagrato della chiesa di San Gerlando, avvolti nelle stesse coperte isotermiche utilizzate per soccorrere i migranti in mare. Lo fecero fintanto che la Sea Watch non ricevette l’autorizzazione ad attraccare. In quel gesto, senza clamore, si fecero soglia: decisero di condividere la condizione dell’altro, di immedesimarsi nel suo bisogno, di proclamare – col corpo prima ancora che con le parole – che il confine può essere luogo di dignità, spazio che protegge e custodisce. Un luogo che non si possiede, ma si offre, anche per “rispondere” ai limiti del diritto d’asilo. Un diritto che, nella sua formulazione giuridica, non garantisce di per sé la permanenza su un territorio, ma solo la possibilità di richiederla e che troppo spesso risulta svuotato di efficacia da politiche migratorie miopi e disumanizzanti.

Eppure, proprio per questo, l’asilo continua a parlarci: va oltre la norma! È un appello personale e collettivo ad abitare, consapevolmente, la soglia. È un invito a diventare “porta”.

Foto: don Carmelo La Magra

Scegliere di abitare la soglia

È proprio su questa soglia – fisica e simbolica – che si gioca una delle esperienze più radicali della fede e dell’umanità: quella di chi sceglie di restare lì, di abitarla, nel senso di farla propria come postura, come condizione di vita. È la soglia evocata dal salmista che canta il desiderio struggente di chi si consuma per entrare negli atri del Signore: ​«Sì, un giorno nei tuoi atri vale più che mille; ho scelto di stare alla soglia della casa del mio Dio, piuttosto che abitare nelle tende degli empi» (Sal 84,11).

È una carità anomala quella che non apre la mano per dare, ma per (rac)cogliere. Nel cuore del salterio, c’è un componimento che veramente commuove mentre dà voce al desiderio di chi «si consuma anelando gli atri del Signore» (Sal 84,3). Sono stati evidentemente gli «atri» dell’antico Tempio di Gerusalemme, ma sono ancora oggi le soglie del cuore di Cristo (e dell’uomo che porta il suo nome). Non è solo esperienza di singoli, ma di un intero popolo, il quale certamente deve fare i conti con le forze e le ferite di ciascuno, che non si arrendono alla rassegnazione, ma hanno la determinazione di compiere delle scelte libere e deliberate. Costi quel che costi.

Si capisce bene che solo chi ha fatto l’esperienza dell’arida valle (Sal 84,7) o delle «tende degli empi» (Sal 84,11) arriva a «scegliere di stare alla soglia della casa di Dio». Un’azione che evidentemente chiede spazi, ma contemporaneamente è consapevole dei tempi. A volte, in effetti, basta veramente solo «un giorno» (Sal 84,11) per riprendere fiato e proseguire il cammino eterno che porta al compimento di sé.

Foto: Cristiano Vizzo

I sì che spalancano la vita

In questo orizzonte, le porte dorate della Basilica della Santissima Annunziata si offrono come un invito alla conversione. Sono soglia stretta, cruna d’ago (cf. Mt 19,24): varcarle significa scegliere di lasciarsi plasmare da Cristo, assumerne i tratti, spalancare la porta della propria vita. Significa lasciarsi attraversare dall’altro, riconoscendo in lui il volto stesso del Signore che chiede di essere accolto (cf. Mt 25,34-40).

Il valore profondo dell’opera “Eldorato” si coglie appieno, poi, se la si contempla in relazione allo spazio che la ospita. Da un lato il dialogo silenzioso con lo Spedale degli Innocenti, luogo secolare di accoglienza, dall’altro l’affresco dell’Annunciazione custodito all’interno della Basilica, da cui essa prende il nome. Maria, la Vergine dell’annuncio, è l’icona perfetta di chi sceglie di restare alla soglia del Signore, facendosi essa stessa soglia tra cielo e terra, tra Dio e l’uomo. Nel suo “” si compie un’accoglienza totalizzante, che non è filantropia ma maternità.

Nell’oro che avvolge Maria riluce la regalità e la dignità del Dio fatto uomo. Così anche l’oro delle coperte termiche – fragile, precario, ma luminoso – diventa tessuto regale per i corpi feriti, memoria viva di una dignità che nessuna condizione può cancellare. È luce che svela la vulnerabilità, la porta in superficie, costringendoci a fare i conti con la nostra indifferenza. Un’indifferenza che spesso ci protegge, ci illude di poter restare impassibili di fronte al dolore, al bisogno, all’ingiustizia. È luce che riflette con forza ciò che ci accomuna: la nostra umanità.

Allora, alla fine, viene da chiederselo davvero: chi è oggi “l’umanità alla porta”?
È chi bussa, ferito, in cerca di riparo.
È chi esita ad aprire, temendo di perdere qualcosa.
Ma è anche, e forse soprattutto, chi resta sulla soglia, non per escludere né per evadere, ma per attendere, per custodire il passaggio, per vegliare finché tutti siano dentro, finché nessuno resti fuori.
È un’umanità che sa di non bastarsi, che si riconosce incompiuta finché non diventa casa per tutti. Un’umanità che non chiude la porta, ma la tiene aperta, anche tremando, anche da sola, nella fiducia che ogni varco possa diventare via di comunione. E noi, da che parte della soglia vogliamo stare?

Detalles de contacto
Marco Pio D'Elia