Italo Mancini, il pensiero che prega - Azione Cattolica Italiana

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Nel centenario della nascita di Italo Mancini, Urbino – la città che lo accolse per decenni e che oggi lo celebra – gli rende omaggio con una serie di iniziative lungo tutto il 2025. Filosofo, teologo, prete, maestro appassionato e libero, Mancini ha lasciato un’impronta profonda nel panorama culturale italiano, soprattutto nel secondo Novecento. Per quasi quarant’anni ha insegnato Filosofia della religione, Teoretica e del diritto nell’Ateneo urbinate, dando vita a una vera scuola di pensiero e formando generazioni di studenti, molti dei quali sono oggi accademici a loro volta.

Carlo Bo, raffinato letterato e storico rettore dell’Ateneo, lo ricordava così: «C’è sempre, in tutte le città dello spirito, una finestra accesa nella notte». Quella finestra, per gli urbinati, era la luce rossa che brillava a Palazzo Antaldi, dove don Italo studiava, scriveva, accoglieva amici e discepoli. Era il segno visibile di una ricerca instancabile, di una fede pensata e interrogata, di una spiritualità inquieta ma mai rassegnata.

Il suo cristianesimo non era convenzionale. Mancini cercava un Dio che non si nasconde fuori dal mondo, ma che si rivela nella storia, nei corpi, nei conflitti, nei legami. Per questo ha parlato di un «cristianesimo radicale», che non significa fanatismo o chiusura, ma ritorno all’essenziale del Vangelo: vivere come ha vissuto Cristo, stare con gli ultimi, servire l’altro, non separare mai la verità dalla giustizia. Un cristianesimo paradossale, come lui stesso lo definiva, capace di disturbare le coscienze tranquille.

Il suo pensiero filosofico-teologico si muoveva tra rigore e passione. Dopo essere stato allievo di Gustavo Bontadini all’Università Cattolica, si era progressivamente allontanato da ogni forma di astrattezza metafisica, per abbracciare quella che chiamava «la svolta ermeneutica»: interpretare la fede nella sua dimensione storica, esistenziale, dialogica. Importante in questo senso fu il confronto con teologi come Barth, Bultmann e soprattutto Bonhoeffer, che Mancini contribuì a far conoscere in Italia. La loro lezione lo aiutò a pensare una fede non religiosa, sganciata dalla logica del potere, capace di parlare all’uomo adulto del nostro tempo, senza rinunciare alla verità ma anzi rilanciandola nella forma dell’incontro e della responsabilità.

La filosofia della religione, per lui, non era una disciplina accademica come le altre. Era un modo di interrogare il senso, di fare spazio all’invocazione. Non si trattava di dimostrare Dio, ma di cercarlo, di lasciare che il linguaggio, pur nella sua fragilità, accogliesse la possibilità di una parola altra. La preghiera, diceva, non nasce nel deserto della ragione, ma al suo limite più alto. Quando ogni argomento è stato speso, resta solo l’atto fiducioso di chi chiama, spera, ama.

Negli anni Sessanta e Settanta, mentre l’Italia e l’Europa attraversavano grandi trasformazioni culturali e politiche – il Concilio, le contestazioni, la crisi dei modelli ideologici – Mancini cercava di tenere insieme la fede e la giustizia, la verità e la storia. Il cristianesimo, per lui, non era evasione dal mondo, ma forza che lo trasforma. Parlava di «prassi» e di «efficacia storica», perché la verità del Vangelo si misura anche nella sua capacità di generare liberazione, pace, dignità. La redenzione non è fuga, ma Esodo.

Proprio per questo, negli ultimi decenni della sua vita, si è dedicato con crescente attenzione alla filosofia del diritto, che per lui non era un’arida teoria normativa, ma un’etica concreta della giustizia, una via per rendere umani i legami sociali, per contrastare le derive del potere cieco e dell’individualismo sfrenato. Parlava spesso di «riconciliazione», una parola-chiave del suo vocabolario: riconciliare l’uomo con Dio, con se stesso, con gli altri, con la terra. Un pensiero che resta attualissimo anche oggi, in tempi segnati da conflitti, polarizzazioni, solitudini.

La sua riflessione si è sempre nutrita di grandi riferimenti — da Lévinas a Dostoevskij, da Nietzsche alla Bibbia — ma non ha mai perso il contatto con la concretezza della vita. E nemmeno con la fragilità del pensiero umano. Il suo ultimo scritto, pubblicato postumo con il titolo Frammento su Dio, raccoglie appunti e intuizioni che si muovono attorno all’idea di una “teologia dei doppi pensieri”. Una teologia capace di pensare Dio nell’ossimoro, nell’unità dei contrari, nella tensione tra il dire e il non-dire. Una teologia che riconosce il proprio limite e, proprio per questo, non smette di cercare.

In un tempo segnato dalla disgregazione e dal cinismo, Mancini ci ricorda che la fede, se è autentica, sa creare contromovimenti culturali. Sa proporre alleanze etiche, convergenze che mettano al centro la vita concreta: la pace, il pane, il lavoro, l’accoglienza, la dignità. E che nessun sabato vale più dell’uomo.

Il pensiero di Italo Mancini non è un pensiero finito. È una voce che continua a interpellarci. Una finestra che resta accesa nella notte.

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Antonio Martino