Silvia Tripodi: Nota sul "libro della natura e del continuo", di Mario Corticelli (déclic, 2024)

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Silvia Tripodi

Nota sul libro della natura e del continuo
di Mario Corticelli (déclic 2024)

La scrittura di Mario Corticelli si fonda sull’assenza di una riflessione esplicita sull’ego. Questo connotato non si configura come una carenza, permette anzi l’accesso a un’ontologia grigia che è tale proprio perché non esplicitata; il soggetto inteso come ego, non subisce il destino delle cose. E queste diventano ombre di sé stesse.
Nel libro della natura e del continuo (déclic 2024) Mario Corticelli sembra assumere le sembianze (assieme ai sembianti del suo libro) del ventriloquo. La pratica del ventriloquo è, in senso deleuziano, uno strumento di presentazione dei concetti che permette di “far parlare” la realtà stessa.
La ventriloquia di Corticelli scalza la postura lirica perché sfrutta il (s)oggetto lirico (pompato) per negarlo (sarcasticamente). Pratica che in Francis Ponge, per esempio, appare più esplicita e diretta; in Corticelli la stessa intenzionalità ha effetti più comici ed estraniati (brechtianamente).
La sua azione di scrittura si schiude alla contemporaneità, senza essere tuttavia destinata a costituirne in modo esaustivo o definitivo i fondamenti e le istanze, ma suggerendo criteri, indicatori, revisioni e modificazioni del linguaggio e dei suoi enunciati.
Tempo fa in una nota, dalla quale saccheggio alcuni brandelli, scrivevo di uno spazio-mondo, di uno spazio-gioco, entro i quali organizzare la realtà. Il mondo descritto da Mario Corticelli si articola in criteri di azioni, attraversamenti dei fatti, campiture del visto, del non visibile, che richiedono una presenza, margini di manovra in una territorialità, anzi in una extraterritorialità, entro confini metatestuali, politici anche, non sempre noti o identificabili: «il modo è l’innesco di un protocollo di estraneità. prendere la distanza — avere una visione dall’alto — mirare ciò di cui si è parte — le unità di misura (i confini politici)» [Guatteri 2013: 59], configurando i luoghi nei quali risiede la cifra politica di un linguaggio della contemporaneità che si fa carico di sintomi, di figure in ombra — quelle di un’intimità dislocata, staccata, alienata, lontana dal soggetto. Una soggettività che mette l’io fuori uso, definendone le disfunzioni, i sintomi; un io che in un contesto contemporaneo sospenda ogni interesse per l’essente affinché, paradossalmente, esso sia.
Una scrittura contemporanea come quella di Mario Corticelli è in definitiva (e indefinitamente) l’epigrafe in motu di sé stessa. Descrive la propria deiscendenza. Pur gettando l’io fuori campo, fuori fuoco, lo mette nel mondo, vive dell’intersoggettività, dichiara la sua presenza nella comunità, ne organizza azioni, reazioni configurabili nell’infinito della situazione.
A tal proposito emblematico è l’utilizzo che Corticelli fa della «oh» lirica e che Francis Ponge, in Nioque de l’avant-printemps, fa del simbolo matematico dell’∞.
Ma andiamo per ordine, e leggiamo Ponge:

Oh solitudine zeppa di elementi muti, tutti fissati al proprio posto, senza sguardo, paralitici, è qui, qui dove tutto un paesaggio mi incravatta e mi prolunga le spalle a destra e a sinistra, qui dove per esprimersi ha soltanto la mia voce (qui dove non mi devo troppo difendere da animali pericolosi), è qui che sento la mia ragion d’essere.
Il Paesaggio ∞* grandi nodi colorati di bistro, rattrappiti e paralitici (infermi) sotto i rabbrunamenti bluastri, sotto i voluminosi pensieri provenienti da ovest.

* Sostituire la “oh” lirica con il simbolo matematico dell’infinito ∞ (l’8 messo orizzontale).
[Ponge 2013: 37]

Sostituendo la «oh» lirica, Ponge forse tenta di utilizzare, come direbbe Braque, una regola che corregge l’emozione, trascendendo classicismo e romanticismo attraverso il primato della materia e dei simboli a essa attribuiti; e di sostituire l’io lirico con il primato dell’oggetto, facendo esprimere l’oggetto stesso (ovvero la natura) e ciò che appartiene al tempo seriale, alla ricorsività, alla coazione dei cicli naturali della nascita e della morte.
Analogamente in Corticelli aspirazione (in senso letterale) e filtraggio di una postura enunciativa altrui (che è in qualche modo una definizione di ventriloquia), appaiono nel testo come oggettivazione di un piano/soggetto enunciante (il lirico, la «pompa lirica», altra espressione pongiana), e ne costruiscono un altro, potenzialmente ventriloquiabile.
C’è nella forma dell’enunciato dei suoi testi una consonanza disintegrata tra il vibrato dei suoni decifrati dalla natura, le icone mortifere del quotidiano e i connotati enigmatici del linguaggio: sono votati alla coesistenza e all’indifferenza reciproca. Nel discorso della lince e del puma, per esempio, la lince, che ribadisce ottusamente e seduttivamente di essere più bella del puma, è ontologicamente risanata dal suo statuto di creatura del regno animale: essa, lei, avviene e si manifesta nel mondo ormai solo nominalmente e puramente come lince, assecondando la sfrontatezza e la volontà di un io (non necessariamente quello del poeta) che con insistenza bussa alle corde del ventriloquo e le dà voce, scardinando l’impersonale, diventando in ultima istanza, personale, e facendo infine di questo connotato una sorta di virtù. A differenza degli enti, che nei testi di questo libro sono rappresentati come idoli, come icone sfuggenti, o come strumenti puri dell’enunciato, alla lince e al puma, al mondo animale e vegetale quindi, Corticelli sembra volere dare la possibilità di tornare alle cose, ostracizzate da una certa metafisica. Non ci sono «monumenti della superstizione» [Gleize 2021: 9], non si intravedono sortilegi o incantesimi e nemmeno una pratica di delucidazione del reale, né le vivisezioni dell’entomologo o dell’etologo. Corticelli si sveste degli orpelli della lirica e si veste della nudità del fantasma.
La posta in gioco è tuttavia quella di tornare a pensare in maniera non idolatrica. Un tale intento passa per l’allargamento della ragione, per «une autre figure de la raison», «une plus “grande raison”», «une rationalité érotique» [Marion 2003: 15].
Si tratta dunque di portare a compimento attraverso l’indagine sul fenomeno, sulla intenzionalità e assertività della lince (del puma, della mosca, del cervo, del bosco, della foresta…), il sapere del soggetto sull’oggetto, il quale è però pregiudicato dal fatto che il linguaggio, attraverso cui il soggetto costruisce le proprie identificazioni, non solo non lo rappresenta, ma lo aliena addirittura nel suo stesso esercizio. Eppure non c’è altro modo per il soggetto di acquisire una propria identità, se non quello di assumere ancora una volta le sembianze del ventriloquo, addizionandovi l’egemonia delle creature e dei fatti del mondo.

Bibliografia:

Jean-Marie Gleize, Escono [2009], in Id., Qualche uscita. Postpoesia e dintorni, Tic Edizioni, Roma, 2021.
Mariangela Guatteri, figurina enigmistica, ikonaLíber, Francavilla al mare-Roma, 2013.
Jean-Luc Marion, Le Phénomène érotique. Six méditations sur l’amour, Grasset, Parigi, 2003.
Francis Ponge, Nioque de l’avant-printemps, ovvero Cognizione del periodo che annuncia la primavera / Nioque de l’avant-printemps [1983], Benway Series, Reggio Emilia, 2013.

* * *

da:
libro della natura e del continuo

discorso della lince e del puma

io sono bella.
io sono molto bella.
solo il puma è bello quasi altrettanto.
il puma mi somiglia.
io sono più aggraziata del puma, e il puma è meno aggraziato di me.
il puma è più massiccio di me e io sono meno massiccia del puma.
queste sono le somiglianze.
e ora le differenze.
il puma è più massiccio di me, infatti io non sono il puma.
io sono più aggraziata del puma, infatti il puma non è me.
il resto dell’autunno l’ho trascorso così.
cacciando i boschi dalle foreste, cacciando le foreste dai boschi.
quanti ritorni!
cacciando nei boschi e nelle foreste foreste e boschi.
da togliere il fiato.
lungamente cacciando cervi dalle foreste verso casa.
molti cervi erano fuggiti dalle foreste a favore dei boschi, lungamente ho inseguito i cervi per ricacciarli nelle foreste a favore delle foreste.
sono davvero bella.
sono bella come un cervo, ma più bella.
il cervo è più bello di me infatti, ma io sono più bella.
tale è la mia bellezza pei boschi e le foreste.
quante corse!
quando riposo e mi giro su di un fianco, il mondo si gira con me.
quando riposo e mi giro sull’altro fianco, il mondo si gira con me.
foreste scivolano nei boschi, boschi scivolano dalle foreste da quella parte.
boschi scivolano in altri boschi e foreste in altre foreste dall’altra parte, verso foreste e boschi.
bacche ghiande noci pigne rotolano da una parte, rotolano dall’altra.
tale è la mia bellezza.
raccogli una noce.
la noce è talmente bella se la raccogli con me.
io sono bella.
la noce che raccogli con me è bella.
ecco le somiglianze tra me e la noce.
se apri la noce che hai raccolto con me ecco escono alberi ecco nasce un bosco dentro il bosco.
il bosco nuovo è così bello.
il bosco nuovo è più bello di una foresta.
è vecchio.
il bosco nuovo è più bello del bosco vecchio.
è talmente bello che fa più bello il bosco vecchio, è una foresta vecchia bellissima.
è più bello del bosco nuovo ora, talmente è bello il bosco nuovo.
anche gli alberi sono belli.
è bello come una foresta più bella ancora.
oh il bosco tutt’attorno!
raccogli una ghianda assieme a me.
che ghianda bellissima! lascia che la raccolga io.
se apro la ghianda che io ho raccolto ecco escono alberi balzano cervi ecco nasce una foresta popolata di cervi e balzi di cervi tra gli alberi e i boschi.
osserva la bellezza delle ghiandaie.
i cervi sono belli.
sono belli i cervi nati dalla ghianda che io ho raccolto e le virate delle ghiandaie.
vi è dell’azzurro nelle ghiandaie dentro il bosco.
vi è dell’azzurro nel cielo sopra il bosco.
io sono talmente bella che anche la mia bellezza è bella.
sono talmente bella che i cervi nati dalla mia ghianda balzano non solo tra albero e albero ma anche tra foresta e foresta e tra bosco e bosco, facilmente.
sono talmente belli della mia bellezza che balzano da foresta a bosco e da bosco a foresta facilmente.
ah la bellezza di quei balzi, ah la lunghezza di quei salti!
anche l’ampiezza è bella.
eccetera.
vi sono alberi nei boschi.
sono belli come foreste.
vi sono alberi nelle foreste, belli.
occorre cacciarli dai boschi, occorre riportarli nelle foreste.
guarda!
la mia bellezza è magnifica nel guardare.
ecco guardo i cervi ora balzare in cervi nuovi, più belli ancora, mai stati così belli.
si dipanano distanze e piane di bellezza, di bei boschi, di foreste belle, di boschi bellissimi abitati.
quando riposo e mi giro su un fianco e tutto rotola il mondo da quella parte.
i miei sogni hanno chance di realizzazione altissime.
tale è la bellezza dei miei sogni.
sogno poco, perché sono bella.
la luna è bellissima e mi illumina.
nella caccia, quando mi sveglio.
al risveglio la mia bellezza è tale che basterebbe per molte notti per molte linci.
ecco che io sono molte linci, più ancora mille.
la luna è molto bella e distingue i boschi dalle foreste, noi distinguiamo in mille e ancora mille le foreste dai boschi, noi cacciamo i boschi dalle foreste e le foreste dai boschi, a favore delle foreste e a favore dei boschi e della bellezza.
più boschi nelle foreste, più foreste nei boschi!
ah la caccia!
ah la caccia!
quanti cervi balzano con noi!
da boschi a foreste e da foreste a boschi, da cervo a cervo, da cervo nel bosco a cervo nella foresta.
io sono bella.
sono bella come un puma, solo più bella.
la bellezza del puma è pari alla mia, ma la mia è più bella.
non vedi?
il puma dice: quanto vorrei essere la lince!
io dico: occupato!
questa è un’altra somiglianza tra me e il puma infatti.
le foreste sono attraversate dalla mia bellezza e dalla luna.
la luna mi assomiglia in questo.
le foreste sono attraversate dai boschi come dalla luce della luna e dalla mia bellezza.
i boschi sono attraversati dalla luce della luna che piove dal cielo, e sono attraversati dalla mia bellezza che si espande dalla mia figura tra gli alberi aggraziata.
ecco la differenza tra me e la luna.
ve ne sono altre, es. la mia bellezza è maggiore.
es. la sua bellezza è minore.
es. siamo entrambe belle.
quanta grazia vi è in me!
i boschi attraversano le foreste e stanno, le foreste attraversano i boschi e stanno.
vi sono alberi e radure.
ho trascorso il resto dell’autunno a cacciare i boschi dalle foreste e le foreste dai boschi.
l’ho fatto con elegante bellezza e senza impoverimento di boschi e foreste e cervi ghiandaie e cani.
la mia bellezza è tale che ho riportato i boschi nelle foreste e le foreste nei boschi.
che corse! le ghiandaie! in questo ho impegnato la mia bellezza, con eleganza.
il puma è meno elegante di me, io sono più elegante del puma.
io sono più minuta del puma, ma la mia bellezza è maggiore.
la bellezza del puma è simile alla mia, ma la mia somiglianza è più bella.
io sono bella.
ecco le differenze tra il puma e me, ecco le differenze tra me e il puma, pur con qualche somiglianza infatti.
io non sono il puma.
il puma non è me.
guarda quel puma!
che bello!

fine del discorso del puma e della lince

*

il cervo è il certo
nella sua voracità verso le più irrilevanti minuzie
pronte a sbriciolarsi
procedendo sulla strada di casa
drappelli di cervi pensavano di avvicinarsi di più al certo
elaborando montagne
dispiegando numeri e tabelle
abbaiare di cani
quanto più accerchiavano il cervo
il cane è il certo
offre i suoi dati segnaletici procedendo sulla strada di casa
queste nuove informazioni assieme a quelle che dispiegano l’origine
delle ali degli insetti
quegli atti notarili dietro i nomi degli insetti
per garantire la propria scomparsa
acquistando un profilo irripetibile e dato
come un abitante del nostro quartiere
nello spiraglio disabitato da cervi che talvolta incrociamo
lungo la strada di casa
per entrare nelle case della gente
hanno due paia di ali non le vediamo non perché siano trasparenti
quasi
organizzandosi nei sempre frequenti traslochi dell’aria da quiete a quiete
perché l’aria è il certo
l’aria nel respiro del cervo
l’interno di un’ampia varietà di case
disposte lungo la strada di casa
il cane è una preda ambita per i cervi
dopo un lungo addestramento in questa lotta con l’opaco
che il cervo secerne come un solido carapace
se ne libera con gesti di corna
il dorso della strada di casa
nella polvere posata sull’aria
intorno a questo
e l’abbaiare dei cani

*

libro

si porta il cibo alla bocca, sente di stare per tossire, lo rimette nel piatto.
non c’è più fame nel mondo.
la fame viene allontanata, non è più nel mondo ma nell’oltremondo.
l’umanità si estingue: non avendo più fame l’uomo non mangia e muore.
hanno fame nell’oltremondo i morti e mangiano gli uomini. non ci sono più sepolture e la terra è più leggera.
rimarranno solo i cani.
impareranno un linguaggio allo scopo di spiegare come si sia estinta l’umanità e su come rimpiazzare i morti con cani morti.
l’ho scritto. io sono uno di quei cani.
mi scuso per l’impianto debolmente digressivo di questo breve e potente testo tuttavia nel suo piccolo profetico.

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