di Niccolò Rinaldi
Poi, quando cala il buio sulla lunga striscia grigia, i ragazzi che fino ad allora avevano giocato a calcio o a rugby in vari campetti improvvisati, non vanno a casa ma si siedono sull’asfalto e si mettono a parlare tra di loro. Lo fanno tutti, in tanti circoli quante erano state le partitelle. Mi siedo anche io, che mi ero aggregato a una partitella, e li ascolto, senza capire.
Che si dicono? Forse di chi è andato via e di chi è restato, forse di chi si è sposato, chissà. Parlano piano, quasi scandendo la loro lingua arcana, che sono tra i pochi a conoscere, il tuvaluano. Una lingua conosciuta da poco più circa diecimila persone e che sta scomparendo. Anche loro stanno scomparendo, tutta Tuvalu ha gli anni contati, e queste notti senza illuminazione pubblica, in un angolo del Pacifico che angoli non ha, sono quasi epifanie del destino che verrà.
Entro il 2050 metà dell’isola della capitale, Funafuti, verrà sommersa dalle acque, entro il secolo di Tuvalu potrebbe restare abitabile appena il 5% dell’arcipelago. Qua, su questa striscia di terra lunga lunga e altrettanto sottile, lontano da tutto e tutti, si sta celebrando la prima attesa di una lenta apocalisse reale, col primo Stato al mondo segnato fatalmente dai cambiamenti climatici. Pare di sentire Macbeth: “Domani, e domani e domani, ogni domani scandisce il tempo assegnatoci, spengiti languida candela”.
A Funafuti dovrebbero abitare ancora seimila abitanti, ma si stenta a vederli, molti hanno già lasciato l’isola e si sono trasferiti in Australia, alle Figi, in Nuova Zelanda, dove si va da tempo anche solo per le scuole superiori o l’università. È un’emigrazione che fa rima con evacuazione, e che dal 2023 beneficia del primo accordo al mondo di visti di ingresso in un paese, l’Australia, per ragioni climatiche, che fa seguito ai 150 visti annuali concessi dalla Nuova Zelanda. È un fuggi fuggi: quest’anno l’Australia ha messo in sorteggio 280 visti, e le domande sono state fatte a nome di oltre 4.000 persone.
Si parte, e quasi nessuno arriva a Tuvalu: questo è il paese meno visitato al mondo, e potrebbe quasi diventare un marchio di distinzione. Si arriva solo con i piccoli arerei bisettimanali dalle Figi, non ci sono veri hotel, ma solo due guest-house, e quel che c’è da vedere è uno struggente finis terrae. Col motorino vado da un capo all’altro della striscia, una lunga strada dritta tra le palme, che costeggia il mare a destra e a sinistra. Anche la chiesa è chiusa, non c’è un ristorante, c’è una palazzina unica per le istituzioni, le conferenze, gli eventi pubblici, con un’auto sgangherata parcheggiata con la targa “deputy prime minister, minister of finance”. La “National Bank of Tuvalu” fa tenerezza, i due distributori di benzina sono delle pompe portatili con annesse i contenitori di carburante.
Eppure anche qui c’è una grandioso “boulevard”: il protagonista della capitale è proprio la pista dell’aeroporto, è lì che la sera si gioca a calcio e a rugby, è lì che di giorno si portano i bambini in passeggino, o ci si ritrova per correre o passeggiare o chiacchierare. Questo cordone ombelicale col resto del mondo è anche il centro interno di Tuvalu. Quando, due o tre volte alla settimana, un aereo deve atterrare o decollare, suona una sirena e la pista è sgombrata. Oltre questa striscia di asfalto, pochi metri più in là, di osserva l’erosione della costa, o i tentativi di resistenza con mega sacchi di sabbia per rinforzare gli argini.
Tentativi per guadagnare un po’ di tempo, mi dicono, non per altro. E anche per studio: questo paese che sarebbe un paradiso, che è abitato da tremila anni, ha ormai il ruolo di laboratorio, di precursore: presto qui, poi potrà accadere altrove nel Pacifico, ma anche alla Danimarca, all’Olanda, a Venezia. Ma qui c’è troppo poco ed è troppo lontano per lanciare una crociata di salvezza, un “Save Tuvalu”, una flotilla di mobilitazione internazionale. A Funafuti non c’è nemmeno una radio, e credo che sia il solo paese al mondo che ne sia sprovvisto – ne ho ascoltate a Kiribati, a Nauru, o negli ancora più piccoli Monaco o Vaticano. Non ci sono né turisti né immigranti, né mercanti di armi, né uomini d’affari. Non vi sono “viaggiatori”. E’ il primo paese al mondo dove non è tanto che “non ci sia nessuno”, è che presto non ci sarà niente.
Niccolò Rinaldi