Dalla resilienza alla forza | BCE - Format Research

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Vorrei iniziare con una citazione:

“Il mondo attorno a noi non resta immobile.

Negli ultimi anni il contesto internazionale ha subito trasformazioni che nessuno di noi avrebbe potuto immaginare. Abbiamo assistito al frantumarsi dell’ordine mondiale del dopoguerra, all’ascesa di nuove (e alcune antiche) potenze, a rapidi cambiamenti tecnologici e a prospettive incerte per il commercio e la finanza a livello mondiale.

L’incertezza dilaga e la saggezza convenzionale mostra il suo limite in politica, in diplomazia e in economia. L’Europa è quindi inevitabilmente chiamata a riflettere sulla posizione che occupa nel mondo e a ridefinire le proprie ambizioni.”

Possono sembrare le parole di uno di tanti discorsi che avete ascoltato nel corso di quest’anno. In realtà sono tratte dal primo intervento che tenni da Presidente della BCE, proprio in occasione di questa conferenza nel novembre 2019[1].

In quell’intervento esortavo l’Europa a riconoscere che il suo vecchio modello di crescita, sospinta dalle esportazioni, cominciava a mostrare la corda.

E invitavo a cambiare prospettiva, a guardare cioè allo sviluppo della nostra economia interna quale fonte di resilienza in un mondo incerto.

Lungi da me la volontà di sostenere il protezionismo o l’isolazionismo.

La soluzione stava già davanti ai nostri occhi

Si trattava di semplice realismo, di vedere il mondo per quello che è. E si trattava di riconoscere che la soluzione stava già davanti ai nostri occhi, nel potenziale inutilizzato del nostro mercato interno.

A distanza di sei anni la diagnosi è la stessa, più forte e chiara.

L’Europa è diventata più vulnerabile, anche a causa della dipendenza da paesi terzi per la nostra sicurezza e per la fornitura di materie prime critiche.

Gli shock mondiali si sono intensificati con l’innalzamento dei dazi statunitensi, l’invasione dell’Ucraina da parte della Russia e l’inasprimento della concorrenza cinese.

Al tempo stesso, il nostro mercato interno è rimasto immobile, soprattutto nei settori che plasmeranno la crescita futura, come la tecnologia digitale e l’intelligenza artificiale, e negli ambiti che la finanzieranno, fra cui i mercati dei capitali.

Tuttavia, citando Galileo: “E pur si muove”. L’Europa continua a mostrare resilienza, rivelando fonti di forza che potrebbero crescere se soltanto lo permettessimo.

La questione che vorrei affrontare oggi è quindi: come passare dall’essere resilienti ma vulnerabili a all’essere realmente forti? Cosa servirà per riuscirci?

Vulnerabilità del modello di crescita europeo

Le vulnerabilità dell’Europa sono riconducibili a un modello di crescita orientato verso un mondo che sta gradualmente scomparendo.

Abbiamo abbracciato la globalizzazione più di qualsiasi altra economia avanzata. Nei due decenni precedenti la pandemia, il commercio esterno in percentuale del PIL è quasi raddoppiato nell’UE, mentre negli Stati Uniti è rimasto pressoché invariato[2].

Questa profonda integrazione ha apportato vantaggi: il numero di posti di lavoro sostenuti dalle esportazioni dell’UE[3] è aumentato del 75%, raggiungendo quasi 40 milioni di unità[4], e per molti anni questa è stata una fonte di resilienza.

Oggi, però, quella stessa apertura è diventata una vulnerabilità. Le esportazioni sono ormai un motore di crescita molto meno affidabile, a fronte del mutamento del panorama mondiale.

A metà del 2023, ad esempio, gli esperti della BCE si aspettavano che le esportazioni sarebbero cresciute di quasi l’8% entro la metà del 2025. In realtà, non sono cresciute affatto. E quanto al futuro, si prevede che nei prossimi due anni le esportazioni rallentino la crescita[5].

Questo fenomeno è stato avvertito in modo più acuto nei paesi con grandi settori manifatturieri, che hanno attraversato un prolungato declino della produzione industriale.

Di conseguenza, la crescita è divenuta più disomogenea nell’area dell’euro.

Al tempo stesso, questo modello di crescita trainato dalle esportazioni ha determinato persistenti avanzi di conto corrente, acuendo la dipendenza da paesi esterni per generare la nostra ricchezza, in particolare dagli Stati Uniti.

Ad oggi quasi il 10% degli investimenti totali in strumenti di capitale dei residenti nell’area dell’euro è detenuto in titoli statunitensi, per un totale di 6.500 miliardi di euro, circa il doppio rispetto al 2015[6].

Si è trattato di una risposta razionale: dal 2000 i mercati statunitensi conseguono rendimenti circa cinque volte superiori a quelli europei. Ma ha generato un circolo vizioso.

Man mano che i mercati statunitensi incanalano i risparmi europei verso settori ad alta produttività, il divario tra i nostri risultati economici si amplia, esacerbando ulteriormente il deflusso dei risparmi europei verso l’altra sponda dell’Atlantico.

Ne consegue una stagnazione della produttività interna e una crescente dipendenza dalle altre economie.

Infine, ci troviamo ad affrontare una nuova forma di vulnerabilità condivisa da tutte le principali economie: la strumentalizzazione della dipendenza dalle tecnologie e dalle materie prime critiche.

Dall’analisi della BCE emerge che oltre l’80% delle grandi imprese dell’area dell’euro non è a più di tre intermediari di distanza da un fornitore cinese di terre rare[7]. I recenti shock dal lato dell’offerta, ad esempio la carenza di chip nel comparto automobilistico, hanno dimostrato come una singola strozzatura possa paralizzare interi settori.

Tali vulnerabilità non innescano crisi drammatiche. Al contrario, erodono subdolamente la crescita, poiché ogni nuovo shock ci spinge su una traiettoria leggermente più bassa.

Nel tempo, l’effetto cumulato di questa “perdita di crescita” e perdita di produttività diventa rilevante.

A metà del 2023 gli esperti della BCE prospettavano un’espansione complessiva dell’economia del 3,6% entro la metà del 2025. In realtà l’attività è aumentata solo del 2,3%, con una differenza equivalente a un intero anno di crescita in tempi normali, e la produttività è risultata peggiore.

Fonti di resilienza nell’economia interna

Questo mondo in trasformazione ha messo in luce le nostre vulnerabilità, ma il 2025 ha rivelato anche punti di forza latenti dell’Europa. L’esperienza di quest’anno ci ha dimostrato che un’economia interna resiliente può schermare l’Europa dalle turbolenze globali.

Tre fonti di forza interna hanno contribuito ad attenuare l’impatto degli shock globali: le persone, il potenziale e le politiche.

In primo luogo, le persone.

Abbiamo beneficiato di un mercato del lavoro insolitamente forte, che ha continuato a mostrare una notevole capacità di tenuta anche a fronte di un rallentamento della crescita.

In generale, l’occupazione tende a crescere a circa la metà del ritmo del PIL in termini reali. Tuttavia, dalla fine della pandemia, tale relazione in Europa è stata quasi pari a uno[8].

Questo elemento di forza ha innescato un circolo virtuoso: l’aumento dell’occupazione ha favorito i consumi, che a loro volta hanno sostenuto l’attività nei servizi dando luogo, ancora, alla creazione di posti di lavoro, in particolare nei settori a elevata intensità di lavoro[9].

In secondo luogo, il potenziale.

Nonostante l’idea che l’Europa sia in ritardo nel campo dell’IA, le imprese europee avanzano rapidamente nella transizione digitale, rafforzando la capacità di tenuta degli investimenti all’incertezza globale.

Se, da un lato, gli investimenti in beni materiali sono diminuiti negli ultimi due anni con l’indebolimento del settore manifatturiero, quelli in attività immateriali hanno registrato un netto incremento[10], per cui gli investimenti complessivi delle imprese si sono mantenuti sostanzialmente stabili.

Le imprese continuano a investire in IA e infrastrutture digitali perché, per rimanere competitive, ormai non possono farne più a meno.

In terzo luogo, le politiche.

La politica di bilancio, in particolare, ha agito in modo anticiclico, da cuscinetto per l’economia, anziché amplificarne il rallentamento, come osservato dopo la crisi finanziaria.

I pacchetti di misure in fase di attuazione per la difesa e le infrastrutture, soprattutto qui in Germania, giungono al momento opportuno per l’Europa e avranno un effetto misurabile sulla crescita.

Secondo le stime degli esperti della BCE, i maggiori investimenti pubblici di qui al 2027 compenseranno per circa un terzo lo shock commerciale[11].

Anche la BCE sta facendo la sua parte assicurando la stabilità dei prezzi. Abbiamo ridotto i tassi di interesse di 200 punti base dal livello massimo e questa riduzione si sta trasmettendo in misura crescente all’economia, generando un allentamento delle condizioni di finanziamento che contribuisce a sostenere la domanda.

Continueremo ad adeguare la nostra politica monetaria come necessario per assicurare che l’inflazione resti sul nostro obiettivo.

Insieme, queste tre fonti di resilienza contribuiranno ad ancorare la crescita all’interno dell’area. La domanda interna è destinata a diventare il principale motore di espansione economica negli anni a venire[12]. E questo cambiamento dovrebbe anche contribuire a ridurre l’avanzo di conto corrente dell’Europa, peraltro già dimezzatosi rispetto al massimo del 2018[13].

Il potenziale del mercato interno

Questa esperienza mette in luce il potere di un’economia interna resiliente, rafforzata dall’autonomia strategica aperta. Ma rivela anche quanto potenziale inutilizzato continua a esserci in Europa.

Oggi, malgrado gli oltre 30 anni del mercato unico, le barriere commerciali all’interno dell’UE rimangono troppo elevate in settori fondamentali.

Dall’analisi della BCE emerge che le barriere interne nei mercati dei servizi e dei beni equivalgono a tariffe pari, rispettivamente, a circa il 100% e il 65%[14]. Come è ovvio, non dobbiamo aspettarci che queste barriere scompaiano completamente: non tutti i prodotti sono ugualmente commerciabili e le preferenze nazionali avranno sempre la loro importanza. La politica può ridurre determinate frizioni, ma non può eliminarle del tutto[15].

Dovremmo aspettarci due cose.

In primo luogo, queste barriere sono sufficientemente basse perché i settori che plasmeranno la crescita futura possano operare in un mercato autenticamente europeo.

Questo evidentemente non vale per i servizi digitali, che traineranno l’innovazione futura, e per i mercati dei capitali, che devono finanziarla.

In secondo luogo, dovremmo aspettarci che essere nel mercato unico offra un chiaro vantaggio rispetto all’esserne fuori, ossia che le barriere interne siano più basse di quelle esterne.

Ma allo stato attuale neppure questo vale per i servizi: negli ultimi 20 anni le barriere agli scambi transfrontalieri all’interno dell’Europa non si sono ridotte più rapidamente di quelle imposte alle imprese internazionali interessate a operare qui.

Ciò contribuisce a spiegare perché, anche se i servizi rappresentano oggi tre quarti dell’economia europea, l’interscambio di servizi all’interno dell’UE costituisce solo un sesto del PIL, più o meno lo stesso di quello con il resto del mondo.

È un grande spreco di potenziale, soprattutto in un momento in cui dobbiamo fare più affidamento su noi stessi anziché su altri. E il punto fondamentale è che conseguire questi guadagni non richiederebbe un cambiamento radicale.

Secondo la nostra analisi, se tutti i paesi dell’UE riducessero semplicemente le proprie barriere allo stesso livello di quelle dei Paesi Bassi, le barriere interne potrebbero diminuire di circa 8 punti percentuali per i beni e 9 per i servizi[16].

Se facessimo solo un quarto di ciò, basterebbe a stimolare gli scambi interni in misura sufficiente a compensare interamente l’impatto dei dazi statunitensi sulla crescita[17].

A questo punto la domanda che dobbiamo porci è: perché non stiamo compiendo questi passi?

Verso una nuova governance

La risposta è la governance.

La piena armonizzazione di tutte le disposizioni legislative e regolamentari nazionali non è realistica, né è sempre necessaria. Ma non disponiamo di strumenti efficaci per superare le barriere nei settori in cui i progressi sono più importanti.

Ritengo che tre passi possano aiutarci a progredire.

Il primo consiste nel rilanciare il principio del riconoscimento reciproco, il motore stesso della liberalizzazione che ha stimolato il mercato unico negli anni ’80.

Il riconoscimento reciproco implica che se un bene o un servizio è legittimamente fornito in uno Stato membro, deve essere autorizzato a circolare liberamente in tutta l’UE senza la necessità di osservare le norme di ogni altro paese.

Ad esempio, nell’UE vi è un sistema di riconoscimento automatico delle qualifiche professionali per una serie di profili settoriali.

Tale riconoscimento reciproco si riscontra anche nei servizi finanziari. Oggi le banche beneficiano di un sistema di passaporto: un’unica licenza rilasciata dalla BCE consente loro di fornire servizi in tutta Europa. Tuttavia, devono ancora affrontare norme diverse per quanto riguarda elementi fondamentali del quadro in cui operano. Completare l’unione bancaria e rendere più spessi i nostri mercati dei capitali cambierebbero la situazione, accelerando il nostro percorso verso un mercato interno veramente integrato.

La stessa logica si applica all’economia digitale. Proprio come il sistema di passaporto rappresenta il riconoscimento reciproco nel settore bancario, il riconoscimento reciproco delle identità digitali, dei servizi fiduciari e di altre credenziali migliorerebbe notevolmente l’interoperabilità ed eliminerebbe i costi nascosti che frenano la crescita dei mercati digitali europei.

Il secondo passo consiste nel razionalizzare il processo decisionale, estendendo il voto a maggioranza qualificata ai settori da cui dipende la futura crescita dell’Europa.

Sebbene sia stato fondamentale nel promuovere l’integrazione, il voto a maggioranza qualificata ha raggiunto di gran lunga i propri limiti. In diversi ambiti critici, il costante requisito dell’unanimità in seno al Consiglio europeo impedisce tuttora di compiere progressi significativi verso il completamento del mercato unico.

La fiscalità è l’esempio più chiaro. Riforme quali l’armonizzazione delle norme sull’IVA o la definizione di una base imponibile consolidata comune per le società rimangono bloccate a causa dei veti nazionali, lasciando le imprese a districarsi in un labirinto di regimi tributari frammentati.

Questa frammentazione è particolarmente dannosa in un mondo caratterizzato da modelli di business digitali e attività immateriali, in cui la politica fiscale non può essere gestita esclusivamente entro i confini nazionali.

Ad esempio, una piattaforma digitale che fornisce servizi cloud o software a livello europeo deve attualmente rispettare 27 diversi regimi di IVA, ciascuno con la propria definizione di dove si crea valore a fini fiscali.

Questa complessità gioca a favore delle grandi imprese statunitensi in grado di assorbire i costi associati, esattamente l’opposto di ciò di cui l’Europa ha bisogno se vuole sostenere i propri operatori digitali più importanti.

Passare al voto a maggioranza qualificata, ricorrendo ove necessario alla clausola passerella – che consente al Consiglio europeo di applicare a determinati ambiti il voto a maggioranza anziché il voto all’unanimità senza modificare i trattati – potrebbe contribuire a superare questo stallo.

Il terzo passo consiste nell’adottare un approccio più radicale alla semplificazione, e qui non intendo semplicemente uno sfoltimento della normativa attraverso pacchetti omnibus.

Il modo più rapido per conseguire una vera semplificazione non è abrogando le norme esistenti, ma creando nuovi “28o regimi”, quadri giuridici facoltativi dell’UE che affiancano il diritto nazionale anziché sostituirlo.

Tali quadri consentirebbero alle imprese di optare per un corpus unico di norme europeo in ambiti specifici, senza la necessità di una piena armonizzazione in tutti gli Stati membri.

Un candidato ideale è il diritto societario[18], come proposto nei rapporti di Letta e di Draghi. Un regime europeo di diritto societario offrirebbe alle imprese, in particolare le start-up e le scale-up, un percorso più semplice per operare a livello transfrontaliero, riducendo la complessità derivante dalla presenza di 27 diversi sistemi nazionali.

Questo approccio ha funzionato in precedenza. Il marchio dell’UE (1993) e i disegni o modelli dell’UE (2001), entrambi 28o regimi, offrono titoli facoltativi di proprietà in

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