Combustibili fossili assenti, finanza debole, ambizioni insufficienti: la Conferenza lascia irrisolti i nodi centrali dell’azione climatica. L’Italia è chiamata a dimostrare coerenza nelle decisioni sulla transizione energetica.

Dieci anni dopo Parigi, Belém avrebbe dovuto tracciare la strada che trasforma gli impegni in azioni. Non ci è riuscita. La Cop 30 sul clima non ha inaugurato una nuova stagione dei negoziati invocata dalla comunità scientifica, imposta dall’evidenza climatica e dettata dal “libro delle regole” di un Accordo di Parigi ormai completo.

Una Cop che si è scontrata con i consueti interessi di breve periodo, spesso capaci di sovrastare il valore democratico di un vertice in cui la società civile è tornata con forza sulla scena, dopo la trilogia Egitto–Emirati Arabi–Azerbaigian, Paesi uniti da due elementi: grandi quantità di combustibili fossili e scarsa qualità della democrazia.

Il vuoto più evidente lasciato da summit di Belém lo conosciamo bene, resta lo stesso da trent’anni a questa parte: l’assenza dei combustibili fossili. Né nel testo della Global Mutirão né in quelli dei diversi programmi di lavoro (mitigazione, adattamento, giusta transizione, ecc.) si trova infatti un riferimento esplicito alla causa principale della crisi climatica. La soglia di 1,5°C continua a essere presente nei documenti ufficiali, ma senza gli strumenti necessari per rispettarla resta poco più di un principio astratto, destinato a evaporare di fronte a una realtà in cui crescono le emissioni climalteranti.

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