Atteggiamenti mesti da parte delle principali associazioni delle industrie culturali e creative: con il cappello in mano di fronte al Governo, confidando nelle briciole della Legge di Bilancio 2026. Il Censis: nell’arco degli ultimi 20 anni, la spesa per la cultura è calata in Italia del 34%
Giovedì 4 dicembre 2025 si è chiusa l’edizione n° 48 delle “Giornate di Cinema”, tenutesi a Sorrento, un’occasione di incontri “b-2-b” (ovvero “business-to-business”, i distributori “theatrical” incontrano gli esercenti cinematografici), ed al contempo si è aperta a Roma l’edizione n° 23 della fiera della piccola e media editoria, “Più Libri Più Liberi”, un’occasione di incontro “b-2-c” (ovvero “business-to-consumer”, gli editori con il potenziale pubblico di lettori ovvero acquirenti di libri).
Le due iniziative stimolano una qualche riflessione sullo “stato di salute” del sistema cine-audiovisivo e librario-editoriale: entrambi i settori registrano dati critici, entrambi i settori invocano un maggiore (e migliore) intervento dello Stato, entrambi i settori osservano una discreta latitanza del governo guidato da Giorgia Meloni, nonostante la solita retorica autoreferenziale sia del ministro Alessandro Giuli (FdI) sia della sottosegretaria delegata Lucia Borgonzoni (Lega Salvini).
Anche lo spettacolo dal vivo non vive una stagione felice, fatta salva l’eccezione del settore dei concerti pop-rock, l’unico che cresce – non grazie ma nonostante le politiche pubbliche – avendo registrato una crescita impressionante negli anni post-Covid, ma di questo si avrà occasione di scrivere durante le imminenti “Giornate dello Spettacolo” promosse dall’Agis (Associazione Generale Italiana dello Spettacolo), che celebra mercoledì 10 e giovedì 11 a Roma il suo 80° compleanno. Anche in quel contesto, temo dinamiche di timida lamentazione da parte delle lobby di settore, e di auto-esaltazione governativa (nel caso specifico, da parte del Sottosegretario delegato allo spettacolo, Gian Marco Mazzi, anch’egli di Fratelli d’Italia).
Quel che accomuna le due iniziative, la prima promossa anzitutto dall’associazione degli esercenti cinematografici, l’Anec (in collaborazione con i produttori e distributori dell’Anica), la seconda promossa dall’associazione degli editori Aie (ma senza la collaborazione dell’Associazione degli Editori Indipendenti – Adei, separatasi dall’Aie nel 2018), è uno spirito – come dire?! – più propositivo che lamentativo, più sommesso che battagliero, come a vergognarsi di dover denunciare lo stato di crisi, che pure è acuta e profonda.
Suscita un sorriso amaro il presidente dell’Anec, Mario Lorini, che ha dichiarato a Sorrento che “il cinema italiano è veramente forte”, proponendo un dato tra i tanti (un numero funzionale ad una fuorviante lettura ostinatamente ottimista), ovvero una quota di mercato dei film “made in Italy” che sarebbe del 29%, senza minimamente analizzare come è composta questa percentuale, ovvero il livello di concentrazione degli spettatori su pochissimi titoli, ed i dati sconfortanti relativi a centinaia di altri titoli prodotti soltanto grazie ai contributi pubblici, film destinati a penosa “invisibilità”. E ignorando dati ufficiali della società che monitora il mercato, Cinetel (controllata da Anec ed Anica) che segnala che dal 1° gennaio al 30 novembre 2025 sono stati venduti in Italia solo 56,4 milioni di biglietti cinematografici, con un calo del 6% rispetto all’omologo periodo del 2024, del 10 rispetto al 2023 e di ben il 33% rispetto all’anno ultimo pre-Covid, ovvero il 2019.
E per la prima volta, quest’anno la sottosegretaria Lucia Borgonzoni non si è fatta vedere in quel delle “Giornate di Cinema” di Sorrento, forse per non essere messa ulteriormente sul banco degli imputati, a fronte dell’annunciato taglio di 150 milioni del Fondo Cinema e Audiovisivo, che – secondo la versione attuale della bozza di Legge di Bilancio 2026 – scenderebbe dai circa 700 milioni del 2025 ai 550 milioni del 2026.
Questa volta la kermesse degli esercenti cinematografici (oltre i 1.700 i partecipanti) non è stata la solita occasione per rialimentare la retorica di un (presunto) eccellente stato di salute del settore cine-audiovisivo, e non c’è stato il rimpallo di complimenti tra il Principe (erogatore di sovvenzioni) e i Sudditi (i beneficiari delle sovvenzioni), nella malata (pseudo) dialettica in essere da anni. Senza dati approfonditi, senza analisi accurate, senza vere valutazioni di impatto dell’intervento dello Stato nel settore. Governo nasometrico dell’intervento pubblico. Incapacità, da parte degli stessi beneficiari, di comprendere l’effetto del sostegno pubblico.
E senza che la lezione dello scandalo del “tax credit” cine-audiovisivo abbia prodotto conseguenze concrete, se non a livello punitivo (il Principe ha chiuso un po’ i cordoni della borsa, ma continua a elargire senza tecnicalità adeguata): secondo alcune stime IsICult, lo Stato avrebbe consentito un deficit di quasi 2 miliardi di euro, non controllando adeguatamente lo sforamento, anno dopo anno, della previsione budgetaria del Fondo Cinema e Audiovisivo, dalla sua attivazione nel 2017, anno 1° della sempre più critica “Legge Franceschini”.
E una decina di giorni fa, improvvisamente, dopo due anni di fallimentari tentativi di riforma di quella legge, la sottosegretaria Borgonzoni ha dichiarato che dal 2026 ci sarà – udite udite! – una nuova legge, i cui contorni sono avvolti nel mistero.
Del settore dell’editoria libraria, che dire?! Secondo stime della stessa Aie, l’anno 2025 si chiuderà con un calo contenuto nell’ordine del 2 % rispetto al 2024 (dato riferito alle vendite nei canali “trade” a novembre, ovvero narrativa e saggistica a stampa venduta nelle librerie fisiche e online e nei supermercati), e segnali incoraggianti si prevedono per l’anno prossimo a seguito del rafforzato sostegno pubblico, grazie a un fondo di 60 milioni di euro destinato alle biblioteche, così come grazie ai 18 milioni della “Carta Cultura” per le famiglie meno abbienti e alla ripartenza della “Carta Docenti”. Il presidente dell’Aie Innocenzo Cipolletta spera “in una chiusura d’anno positiva”, un po’ come gli esercenti cinematografici che puntano molto sul film di Checco Zalone “Buen Camino”, che uscirà nelle sale il 25 dicembre.
Il ministro Alessandro Giuli ha dichiarato, all’apertura di “Più Libri Più Liberi” giovedì 4: “sono d’accordo con voi: non amo parlare di sistemi sussidiati, ma all’editoria oggi sono necessari incentivi per l’innovazione. Lavoriamo quindi a un sistema di compenetrazione tra pubblico e privato, per far sì che tale sostegno, essenziale, sia ben utilizzato. Dopo arriverà anche una legge per il libro, su cui l’iniziativa spetta al Parlamento. E in caso di legge delega, siamo ovviamente pronti a fare il nostro lavoro, scrivendola insieme a voi e a tutti gli operatori del settore: ecco perché vogliamo avere un confronto serrato con le associazioni datoriali e quelle dei lavoratori”.
Commendevoli intendimenti, dichiarazioni impeccabili, ma per restare lettera morta? Si registra l’eco di impegni assunti e poi traditi dallo stesso ministro Giuli, ormai mesi fa, nei confronti delle associazioni dei lavoratori cine-audiovisivi, in particolare recependo (a parole) le istanze di movimenti come #Siamoaititolidicoda, che rappresenta le maestranze e i tecnici del settore. Parole, parole, parole.
Anche i dati relativi al mercato editoriale possono essere oggetto di interpretazioni controverse: l’analisi dell’Ufficio Studi di Aie (sulla base di elaborazioni NielsenIq BookData) evidenzia come dal 2008 a oggi l’editoria libraria abbia vissuto tre fasi diverse. La prima ha visto, dopo una crescita nel triennio 2008-2010, un brusco calo delle vendite, fino a un minimo di 81 milioni di copie vendute nel 2016; dopo, è seguita una stagione di forte crescita, causata anche dalla prigione domestica determinata dal Covid, che ha accelerato dopo il Covid e che ha portato a un picco di 105 milioni di copie vendute nel 2021; in seguito la crescita si è fermata e nel 2024, le copie vendute sono state 103 milioni. In termini di valore economico?! Dopo che le vendite del mercato “trade” avevano fatto registrare nei primi dieci mesi del 2025 una flessione a valore del 2,4 % rispetto al 2024, con vendite complessive pari a 1.129 milioni di euro, un novembre positivo ha portato il mercato a ridurre il calo all’2,0 %. Anche in questo caso, i “big player” resistono meglio dei piccoli e medi editori. Infatti, se è soltanto 2 % per gli editori con oltre 5 milioni di euro di vendite, la diminuzione sale al 10 % per gli editori con giro d’affari tra 1 e 5 milioni di euro, e del 7 % per gli editori con venduto annuo inferiore ad 1 milione di euro. Insomma, c’è poco da star allegri.
Senza dimenticare – anche sul fronte dell’editoria libraria – le asimmetrie e il “cultural divide” del Paese: basti osservare che nel Sud, dove risiede il 34% della popolazione italiana, la percentuale di copie vendute corrisponde soltanto al 19% del totale nazionale.
A proposito di “mano pubblica”. Va segnalato che lunedì 1° dicembre tre delle principali associazioni delle industrie culturali e creative nazionali, ovvero l’Associazione Italiana Editori (Aie), la Federazione Italiana Editori Giornali (Fieg) e Confindustria Radio Televisioni (Crtv), hanno lanciato un “appello”, chiedendo rinnovate politiche di sostegno e normative per il mercato dell’editoria, salvaguardando il valore costituzionale della libera informazione. Sul banco degli imputati, in questo caso, le “Big Tech”, ovvero le grandi aziende digitali globali, che hanno alterato profondamente le dinamiche del mercato e i principi base di una sana concorrenza. Le Big Tech, infatti, aggregano e sfruttano economicamente i contenuti informativi e creativi prodotti dagli editori, senza riconoscere – se non molto marginalmente – i diritti d’autore. Offrono servizi digitali a titolo “gratuito” in diretta competizione con le fonti originali, ricevendo in cambio dati personali che sfruttano per trattenere la gran parte dei ricavi pubblicitari, indebolendo così la sostenibilità finanziaria di chi si fa carico dei costi della produzione originale.
Inoltre, utilizzano algoritmi non trasparenti, che pongono gli editori in una posizione di dipendenza, limitandone la capacità di raggiungere direttamente i cittadini e compromettendo, di fatto, il principio di libertà di impresa nel settore. Allo stesso tempo – denunciano Aie e Fieg e Crtv – le “Big Tech” reclamano ampia immunità su quanto avviene nelle loro piattaforme, presentando il furto dell’ingegno altrui, le false notizie e il mascheramento delle fonti come “libertà di espressione”, dimenticando che questa deve sì essere sempre difesa, ma non sfuggendo alle proprie specifiche responsabilità. Gli editori, al contrario, rispondono anche legalmente di quanto pubblicano. Aie e Fieg e Crtv concludono che “un mercato così fortemente squilibrato non può mai essere equo” e chiedono al Governo di “delineare con urgenza politiche e normative” per riequilibrare il mercato, ridurre le asimmetrie, e garantire un futuro al valore economico, sociale e culturale dell’impresa editoriale italiana. Anche in questo caso, belle parole, ma – ahimè – nessuna proposta concreta. Un rafforzamento della “web tax” sembra scomparso dai radar della Legge di Bilancio 2026: un tempo la stessa premier Giorgia Meloni voleva colpire “i giganti del web”, ma si tratta ormai di una promessa evaporata. Ormai preferisce non disturbare i “big player”, ovvero gli interessi dell’“alleato” Donald Trump. In una dichiarazione congiunta Italia-Usa dell’aprile scorso, si leggeva della necessità di “un ambiente non discriminatorio in termini di tassazione dei servizi digitali” (sic): amen per la “digital tax” italica.
Da queste dinamiche, emerge ancora una volta un malessere diffuso, profondo, strisciante, da parte degli operatori delle industrie culturali e creative italiane, ma – al tempo stesso – una sorta di timorosa autocensura, un deficit di propositività e di progettualità strategica.
La critica all’esistente è debole (e sommessa), peraltro non suffragata da studi e analisi (interdisciplinari ed intersettoriali) adeguate a comprendere le dimensioni quali-quantitative della crisi in atto, crisi che nell’arco di pochi anni verrà pesantemente aggravata dalla mutazione strutturale determinata dalla diffusione pervasiva delle Intelligenze Artificiali, rispetto alle quali l’Italia (e l’Europa tutta) mostra una passività sconfortante.
Ancora una volta, emerge la carenza di ricerche di approccio sistemico (socio-culturale-economico) e di valenza strategica (previsionali, nel medio-lungo periodo): questo deficit consente al Governo di turno di intervenire in modo occasionale e contingente, un po’ come avviene con le tante surreali “mance” in sede di legge finanziaria.
Come ho avuto occasione di osservare nel corso dei decenni attraverso l’esperienza del laboratorio di ricerca indipendente dell’IsICult, “meno si sa, più il Principe decide discrezionalmente”, ché tanto i “sudditi” non riescono a ben comprendere quale sia la vera verità.
Conferma di questo teorema s’è avuta giovedì 4 dicembre 2025 nella Sala Stampa di Palazzo Madama, su tematiche “macro” che vanno ben oltre il sistema culturale, come la politica della sanità, della scuola, dell’ambiente: in occasione della presentazione dell’edizione n° 25 del rapporto “Sbilanciamoci!” (ovvero la “contromanovra” elaborata da oltre 50 realtà della società civile), Francesco Boccia, Capogruppo del Partito Democratico a Palazzo Madama, ha rimarcato che “il valutare ex post le politiche pubbliche ti costringe a guardarti allo specchio: se tu dici… serve 1 miliardo per l’ambiente, e poi… verifichi che il livello di CO₂ l’anno dopo è peggiorato anziché migliorato, diviene evidente che quel miliardo l’hai buttato”.
Non è un problema di “cultura statistica”, ma di volontà politica a non utilizzare al meglio i dataset disponibili, a non stimolare ricerche di valutazione di impatto: il governo guidato da Giorgia Meloni non ha dimostrato sensibilità alcuna a dotarsi di strumentazioni adatte a misurare gli effetti delle proprie politiche.
Nel settore della cultura e dei media la situazione in Italia è poi particolarmente grave, perché si (mal) governa con una “cassetta degli attrezzi” semplicemente penosa.
Un’analisi impietosa della crisi in atto emerge anche dal 59° “Rapporto sulla situazione sociale del Paese”, presentato venerdì 5 dicembre 2025 dal Censis presso la sede del Cnel: nell’arco degli ultimi 20 anni, la spesa per la cultura è calata in Italia del 34%. Un dato che in un Paese normale basterebbe a far scattare un allarme nazionale. Il crollo è nell’ordine del 48% per i giornali e del 25% per i libri.
In termini di spesa, si tratta di poco più di 12 miliardi di euro nell’ultimo anno, ovvero poco più di un terzo di quanto spendiamo nell’insieme per smartphone e computer (quasi 14,5 miliardi nel 2024: +723 % negli ultimi vent’anni!) e servizi di telefonia e traffico dati (17,5 miliardi).
In quest’ambito, soltanto la cosiddetta “cultura esperienziale” sembra crescere, ovvero quella vissuta in una dimensione sociale, qual è il caso dei concerti di musica pop-rock, che nel 2025 – secondo i dati Siae – hanno registrato 29 milioni di spettatori, con un incremento del 3 % rispetto al 2024, e una spesa complessiva di 989 milioni di euro (a fronte dei 534 milioni di euro del cinema).
Con simili indicatori, come definire la “politica culturale” dell’Italia, negli ultimi anni? Disastrosa. Una disfatta strutturale mascherata dallo “storytelling” governativo. Nonostante i continui maldestri tentativi da parte del governo “pro tempore” di trovare numerologie funzionali a una visione rosea e autoreferenziale del proprio operato. Nota bene: valeva quando Dario Franceschini “governava” il sistema culturale, vale ancor di più negli ultimi tre anni, da Gennaro Sangiuliano ad Alessandro Giuli.
Vocazione all’“evidence-based policy making”? Debole prima, ormai del tutto assente.
Angelo Zaccone Teodosi