Nanomateriali quotidiani | Rizzoli Education

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Nanomateriali. Una parola che evoca tecnologie futuristiche, laboratori segreti, supereroi e supercattivi. Oggetti minuscoli ma con proprietà incredibili, capaci di plasmare la realtà intorno a noi. Non li vediamo, ma sono ovunque: nel cartone del latte, nella crema solare, nella TV… Se questa rivelazione vi sorprende non preoccupatevi, è questione di semantica! Colpa della pop culture, che si è appropriata del termine scientifico per “materiale molto piccolo” donandogli un sapore più accattivante. Eppure, le nanotecnologie sono in circolazione da moltissimo tempo, ben prima di noi umani, e sono abbastanza comuni nella vita di tutti i giorni. 

Ma andiamo con ordine: per nanomateriali i chimici intendono qualsiasi oggetto che sia misurabile in miliardesimi di metro, e cioè in nanometri. Più grandi di una molecola, ma più piccoli di una cellula, i nanomateriali ci appaiono sfuggenti proprio perché non abbiamo in mente nulla con cui confrontarli. Eppure, è proprio questa condizione intermedia che li rende così interessanti, e la natura ci ha preceduti nell’apprezzarne le qualità nella sua corsa verso la massima efficienza. Sono nanomateriali i gusci delle conchiglie, i denti e le ossa, formati da minuscoli cristalli minerali che donano resistenza impedendo alle crepe di propagarsi. Sono nanomateriali le ali delle farfalle, composte da piccole scaglie ordinate in modo da riflettere solo la luce di alcuni colori. E ancora, è un nanomateriale biologico il latte, formato da minuscole goccioline di molecole progettate per disperdere i nutrienti nel liquido ed evitare che sedimentino sul fondo del bicchiere (o della mucca). 

Come avrete intuito, tutti i materiali possono diventare nano a patto di essere ridotti alle giuste dimensioni, e a volte alcuni assumono proprietà interessanti. Gli esseri umani se ne sono accorti presto: le prime nanotecnologie risalgono all’età del bronzo, quando abbiamo iniziato a produrre vetri colorati da particelle metalliche e scoperto il sapone, che funziona in modo molto simile a un “latte” artificiale. Le nanotecnologie, nel senso proprio di uso pratico dei nanomateriali, non ci hanno mai lasciati da allora. Tuttavia, nell’ultimo secolo abbiamo raggiunto un traguardo cruciale: per la prima volta in tre millenni abbiamo capito che controllare la dimensione e la forma dei materiali ne condiziona le proprietà, e abbiamo imparato come sfruttare questi fenomeni a nostro vantaggio. Se le nanotecnologie sono questione di tutti i giorni, è in realtà la nanoscienza a stimolare la nostra immaginazione. 

Come chimico dei materiali, ho il piacere di lavorare per trasformare queste idee in realtà. Ho iniziato come studente all’Istituto Italiano di Tecnologia di Genova, per proseguire come ricercatore prima in Svezia e poi al Massachusetts Institute of Technology di Boston, dove mi trovo ora. Tra i mille materiali possibili ho scelto di dedicarmi alle nanoparticelle colloidali, minuscoli granelli di materiali solidi coperti da molecole simili al sapone, che servono a proteggerle e renderle solubili. Il loro nome deriva proprio da questo stato intermedio tra solidi e liquidi: “colloide” è il termine tecnico per una fine dispersione di piccoli oggetti, proprio come i nutrienti nel latte e le gocce d’acqua nella nebbia. In un certo senso, noi nano-chimici siamo gli eredi di quegli antichi artigiani che con le loro particelle colorate disperse nel vetro hanno inventato le nanotecnologie. 

Le nostre nanoparticelle sono troppo piccole per essere “costruite” con strumenti classici, né possono essere viste ad occhio nudo. Le produciamo tramite reazioni chimiche, e per studiarle utilizziamo speciali microscopi elettronici, che permettono di ingrandirle centinaia di milioni di volte. Ne vedete alcune nell’immagine qui accanto: ciascuno dei puntini che le compongono è una fila di atomi, disposti ordinatamente a formare un minuscolo cristallo. 

Figura 1. Queste soluzioni fluorescenti contengono ciascuna migliaia di nanocristalli semiconduttori. Ingrandirle centinaia di migliaia di volte con un microscopio elettronico permette di vedere i singoli atomi che le compongono.

Anche se non possiamo vederle ad occhio nudo, uno dei motivi per cui ci interessano così tanto le nanoparticelle sono i loro colori, ossia la loro capacità di interagire con la luce. A seconda del materiale che le compone (metalli, semiconduttori, ceramiche, …), esse possono assorbire, emettere o disperdere luce in modo controllato, il che le rende perfette per moltissime applicazioni. L’esempio più celebre sono le lineette rosse che annunciano un nuovo membro in famiglia o una settimana di febbre quando facciamo un test antigenico: si tratta di nanoparticelle d’oro ricoperte da speciali anticorpi che riconoscono gli indicatori biologici prodotti nel nostro corpo da ospiti più o meno desiderati. Fino a qualche anno fa erano altrettanto importanti le nanoparticelle d’argento, che formandosi annerivano le pellicole fotografiche. Con il digitale non le usiamo più, e tuttavia le nanoparticelle rimangono materiali d’avanguardia per lo sviluppo di sensori per fotocamere, specialmente nell’infrarosso. 

Chiaramente in questo caso parliamo di materiali più complessi rispetto a oro o argento: sono nanoparticelle di semiconduttori, di cui forse avrete sentito parlare grazie al premio Nobel per la chimica 2023. Se avete seguito la premiazione in diretta sul vostro nuovo televisore Q-LED, vuol dire che ne avete qualche miliardo in salotto. La Q sta infatti per Quantum-dot, particelle dai colori sgargianti come quelle nella foto, che donano allo schermo tonalità più ricche e una migliore efficienza energetica. Oggi i quantum dot sono studiati per una miriade di applicazioni. Sono perfetti come sorgenti di luce per schermi e illuminazione domestica, ma anche nei laser e nelle telecomunicazioni via fibra ottica. Vengono inseriti in pannelli semi-trasparenti che convertono parte della luce solare in corrente elettrica, contribuendo a regolare la temperatura di uffici, serre e pensiline, e anche il costo della bolletta. Infine, i quantum dots sono una delle frontiere dell’informatica: li studiamo per alimentare i computer fotonici, basati su segnali luminosi anziché elettrici, e i computer quantistici, che sfruttano le particolari proprietà fisiche della luce prodotta da queste nanoparticelle per eseguire calcoli complessi. 

Questi sono solo alcuni dei casi in cui potreste incontrare le nanoparticielle, già oggi o in un futuro prossimo. Nei laboratori di tutto il mondo, nano-chimici come me lavorano a nuove applicazioni per un mondo più sostenibile e sicuro. Non serve fare troppo caso a queste compagne di viaggio piccole e discrete, che fanno il loro dovere lontano dal clamore dei media e dalle storie di supereroi. Magari ricordatevi di loro quest’estate, quando non vorrete più sentir parlare di chimica e cercherete rifugio sotto l’ombrellone. Controllate la vostra crema solare: a proteggervi potrebbero essere proprio nanoparticelle di ossidi di zinco o titanio, perfette per riflettere la luce ultravioletta pur restando facili da spalmare. Più utili di Superman, no?

Biografia autore

Stefano Toso è ricercatore in chimica dei materiali al Massachusetts Institute of Technology di Boston e all’Università di Lund in Svezia. Originario di Genova, ha conseguito il dottorato all’Istituto Italiano di Tecnologia lavorando su nanocristalli semiconduttori per applicazioni energetiche. Per le sue ricerche, nel 2024 ha ricevuto il premio ENI Young Researcher of the Year. Oggi coordina un progetto europeo Marie Skłodowska Curie Actions per utilizzare nanomateriali luminescenti come sorgenti di luce miniaturizzate. Nel tempo libero ama viaggiare in tenda e collezionare minerali.

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Andrea Padovan