Una Lady Macbeth del distretto di Mcensk

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Una Lady Macbeth del distretto di Mcensk: l’opera che trasformò un palco in un avvertimento

Un’opera che non chiede permesso

C’è un’opera che non entra in punta di piedi.

Entra.
Alza la voce.
E poi viene messa a tacere.

Una Lady Macbeth del distretto di Mcensk di Dmitrij Šostakovič nasce in un tempo elettrico.
Modernismo. Grottesco. Ironia che graffia.

Ma l’aria è già pesante.
Sta arrivando il giro di vite.

E questa storia non racconta solo un delitto.
Racconta una prigione.

Katerina: la gabbia, poi la crepa

Katerina Izmajlova è giovane.
Eppure sembra già spenta.

Da cinque anni è moglie di Zinovij, ricco mercante.
Vive segregata. Sola. Ripetitiva.

E poi c’è Boris, il suocero.
Non è un personaggio: è pressione continua sul petto.

Un dettaglio “domestico” apre già un presagio:
Boris le ordina di preparare il veleno per i topi del granaio.

Sembra niente.
È un’arma appoggiata sul tavolo.

Sergej: l’amore come miccia, non come salvezza

Arriva Sergej.
Servo giovane. Seduttore insistente. Con una fama sporca addosso.

C’è una scena che chiarisce tutto:
Katerina non dorme. Parla della sua solitudine.
Sergej entra con una scusa. Un libro.

Non è romanticismo.
È invasione. È fame. È sfida al controllo.

E intanto Boris vigila.

Šostakovič qui non “colora”.
Graffia.

Il veleno, i funghi e una morte “spiegata bene”

Boris sorprende gli amanti.
Fa frustare Sergej fino al sangue, davanti a Katerina.

Violenza nuda.
Senza poesia.

Poi Katerina cucina dei funghi per il suocero.
E ci mette dentro il veleno per topi.

Boris muore. Arriva perfino il prete.
E Katerina spiega tutto con calma: “saranno stati i funghi”.

Nessuno vede.
O forse: nessuno vuole vedere.

È un delitto.
Ma è anche la radiografia di una casa dove la coscienza dorme già.

La cintura, la cantina e il contadino ubriaco

Zinovij torna.
Trova una cintura da uomo. Capisce.

Punisce Katerina con quella cintura.
E la storia diventa feroce.

Nella colluttazione, Sergej (incitato da Katerina) uccide Zinovij.
Il corpo finisce in cantina.

Poi arriva uno dei momenti più neri e assurdi:
un contadino ubriaco forza la cantina per rubare vodka.
E trova il cadavere.

È quasi comico.
Ma ti resta in gola.

Anche la polizia è raccontata con crudeltà.
Al commissariato si lamentano del lavoro e dei soldi.
E il capo è irritato per non essere stato invitato alle nozze di Katerina.

Qui la “giustizia” non è eroica.
È vanità. È rancore.

Siberia: quando l’amore finisce in un paio di calze

Nel finale, Katerina viene deportata in Siberia con Sergej.

Lei lo raggiunge corrompendo una guardia.
Lui però è già altrove. Freddo. Opportunista.

Si lega a un’altra donna: Sonetka.

E arriva la scena più piccola e più devastante:
Sonetka promette amore in cambio di un paio di calze.
Sergej torna da Katerina e le chiede le calze.
Katerina gliele dà.
Lui le porta a Sonetka.

E Katerina capisce.

Non c’è più niente da salvare.
Allora afferra Sonetka e si getta con lei nell’acqua gelida.

Fine.

Non moralizza.
Fa eco.

“Caos anziché musica”: quando la politica spegne il palco

Qui il colpo vero è fuori dalla trama.

Nel 1936 “Pravda” pubblica la celebre stroncatura: “Caos anziché musica”.
Da quel momento l’opera diventa un caso. Un segnale. Un avvertimento.

Viene ritirata.
E tornerà dopo la morte di Stalin, in versione più “ammorbidita”, con un altro titolo: Katerina Izmajlova.

Non è solo teatro musicale.
È storia culturale. Con conseguenze reali.

Shakespeare, ma corroso

Šostakovič parlava di “tragedia satirica”.

E in quegli anni il suo sguardo era lo stesso anche altrove.
Per esempio nell’Amleto messo in scena a Mosca (1932) con sue musiche: corrosivo, dissacrante.

Un dettaglio dice tutto:
Ofelia non “impazzisce” soltanto. È anche umiliata.
E la morte per annegamento diventa quasi uno scivolone.

Non era “solo musica”.
Era un modo di guardare l’uomo. Senza trucco.

Perché ci riguarda ancora

Katerina non nasce “mostro”.
Nasce vuoto.

E quel vuoto viene chiamato con nomi comodi: colpa, vergogna, sterilità, difetto.
Quando una vita è trattata come proprietà, la libertà spesso non arriva come luce.

Arriva come incendio.

Se devo lasciarti una sola immagine è questa:
un veleno per topi preparato “per dovere”
che diventa la scorciatoia di una coscienza schiacciata.

E tu, dov’è oggi la gabbia?
Nel lavoro. In casa. Nelle aspettative degli altri.

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