Il vero nome di Rosamund Fischer, raccontato da Simona Dolce | Libri Mondadori

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“La fanciullezza è una stanza vuota, come l’inizio del mondo”, un pensiero di Anselm Kiefer, il poderoso pittore e scultore tedesco fra i più straordinari artisti del nostro tempo. È una frase rivelazione che si lega molto alla vicenda che ho raccontato.

Mi pare di poter sostenere che l’infanzia della mia protagonista, Inge Brigitte poi Rosamund, non lo sia stata. Troppo denso di significati e di contraddizioni il luogo dov’è cresciuta, troppa la distanza fra la sua memoria personale e quella collettiva. Resta però certamente vero che in quella stanza della fanciullezza si è compiuto anche il suo destino, l’inizio del suo mondo.

E infatti Il vero nome di Rosamund Fischer è la storia di Inge Brigitte, la terzogenita di Rudolf Höss, il comandante di Auschwitz, che da bambina ha vissuto in una villa a pochi metri dal campo di concentramento. Quando giocava in giardino, solo un muro divideva la sua vita felice dall’orrore che vivevano i prigionieri.

La prima volta che ho scoperto della vita di Inge Brigitte Höss è stato nel 2013 grazie all’unica intervista che la donna abbia mai concesso. In quel breve scambio di battute, Inge Brigitte racconta alcuni elementi essenziali della sua vita ma soprattutto lascia trapelare la difficoltà (incapacità?) di coniugare l’immagine che conservava di suo padre, Rudolf Höss, come quella di un uomo amorevole e devoto, con il ritratto che la Storia ci ha consegnato del comandante di Auschwitz, responsabile efficiente della macchina dello sterminio.

Immediatamente ho capito che volevo scrivere di lei, ma come farlo? Dal 2013 sono passati molti anni, un lungo tempo di riflessione su quale postura assumere nei confronti di questa storia e poi un lungo tempo per compiere la ricerca necessaria a capire il mondo di Inge Brigitte e a conoscerlo nei dettagli. Com’erano le giornate della famiglia nella villa? Come si comportavano Rudolf ed Hedwig, i suoi genitori, con i bambini e cosa insegnavano loro? Fino alle questioni più minute, come si vestivano, cosa mangiavano, quale musica ascoltavano?

Questo lavoro di scavo mi ha permesso di avvicinarmi sempre di più a Inge Brigitte e alla sua quotidianità. E ho capito che era fatta di tante piccole gioie – la piscina, i giochi con i fratelli, i regali e le feste, le favole della buonanotte che Rudolf le leggeva prima di addormentarsi – e di molte grandi menzogne. Lei e i suoi fratelli non sapevano di vivere accanto al campo di concentramento, né che le domestiche, i giardinieri o gli operai fossero dei prigionieri, non potevano spiegarsi la cenere che giungeva in giardino nei giorni di vento o le urla che di tanto in tanto, di notte, Inge Brigitte sentiva dalla finestra della stanza da letto. In quel momento era solo una bambina in una campana di vetro, figlia di una classe privilegiata in una società irreggimentata all’orrore e governata da logiche patriarcali in cui le donne – talvolta complici – erano parte di un disegno preciso: erano madri, erano macchine per fare figli, erano responsabili dell’equilibrio familiare necessario per poter mantenere efficiente lo sterminio.

È innegabile infatti che il nazismo sia stata una monumentale architettura politico sociale creata dagli uomini sulla base di caratteristiche tipiche del maschile, l’espansione del territorio, la gerarchia militaresca, il superuomo, il dominio sui propri simili. Uomini che hanno deciso di fare la guerra contro altri uomini.

Inge Brigitte Höss, bambina e poi donna, era diversa da sua madre Hedwig, totalmente aderente alla vita che aveva scelto di vivere: lei il suo destino lo ha soprattutto subito, a causa di tutto il carico di menzogne in cui era cresciuta e all’ambiguità di adulti capaci di essere teneri e protettivi nella vita privata, familiare, quanto spietati e feroci in quella pubblica.

In questo cortocircuito è la portata della sua storia. Nella differenza tra ciò che Inge Brigitte ha davvero vissuto nella sua infanzia e ciò che ha appreso dopo sul conto dei suoi genitori e in particolare su suo padre Rudolf, il suo Vati, il suo amorevole e protettivo papà, c’è la tragedia di un’umanità ancestrale che ci riguarda tutti. Chi siamo, e come diventiamo ciò che siamo? Che significato hanno colpevolezza e innocenza quando sono incarnate da qualcuno che amiamo?

Il vero nome di Rosamund Fischer è il mio tentativo di capire questa doppiezza, di indagare lo spazio di un’infanzia violata dalle menzogne e le conseguenze che trascinano nel futuro.

Simona Dolce

Recapiti
Redazione Mondadori Libri