Allevare con rispetto deve essere possibile e sostenibile per tutti

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L’uso delle gabbie e i lunghi trasporti che gli animali devono subire prima della macellazione (avicoli, cunicoli, suini o anche vitelli) rappresentano l’esempio lampante di quanto la disumanità possa divenire norma in nome del mero profitto.

Per quanto la selezione genetica abbia cercato di creare soggetti che possano sopravvivere in gabbia, sappiamo tutti molto bene che non possono esistere gabbie, seppure ben gestite, in grado di garantire un soddisfacente livello di benessere per gli animali. 

L’approccio industriale ha trasferito i principi industriali delle economie di scala e della meccanizzazione all’allevamento animale, snaturandolo e allontanandolo dall’ambiente naturale cui appartiene: la campagna. Ma gestire gli allevamenti come catene di montaggio è inumano e inoltre costa caro. Un conto salato che paghiamo tutti, non solo in termini di benessere animale, ma anche di cattiva nutrizione, pessima qualità del cibo, danni all’ambiente e crisi climatica. 

Vi è però un’alternativa, ce la dimostrano tutti quegli allevatori che della gestione etica dei loro animali fanno la loro bandiera: dall’allevamento brado, con molti di ettari in rotazione, alla gestione estensiva dove la libertà di movimento e interazione rappresentano un prerequisito e vengono garantite. È il momento di proporre un modello alternativo, di innescare una transizione. Mangiamo troppa carne e, forse ancor peggio, proveniente da animali infelici: può tutto questo considerarsi sostenibile?

Ne parliamo martedì 9 aprile alle 18 in collegamento streaming per il quarto appuntamento di Food to Action Academy, la formazione gratuita per i soci Slow Food e chi vorrà diventarlo.

A guidarci nella discussione Jacopo Goracci, direttore di Tenuta di Paganico e referente tecnico di Slow Food per le filiere animali, che modera l’incontro con Stefano Chellini, agronomo della cooperativa Monte di Capenardo Genova, Pietro Venezia di Veterinari senza frontiere e Giada Todisco Grande, allevatrice dell’Az. Agricola Brigantes di Cagli (Pu).

Intanto, anticipiamo qualche punto della lezione insieme a Stefano Chellini e Jacopo Goracci.

Stefano, la Cooperativa agricola Monte di Capenardo, di cui fai parte, si è riunita con l’obiettivo di recuperare terreni abbandonati sull’appennino genovese e, in questo contesto, gestisci un allevamento nelle cosiddette Terre Alte: paesi, comunità e spazi verdi di montagna spesso abbandonati e incolti, dove allevare diventa tanto più necessario quanto complicato. Quale è il ruolo dell’allevamento nel recupero di queste terre che costituiscono il 70% del nostro territorio?

SC: A causa dello spopolamento degli ultimi decenni queste zone dell’appennino – siamo ad appena 700, 1000 metri di altitudine – hanno iniziato a subire il degrado dovuto all’abbandono: per le mancate cure di contadini e allevatori, gli spazi verdi sono stati invasi da rovi e boscaglia. Si è persa così la funzione agricola di questi spazi insieme anche al presidio e alla manutenzione del terreno per la prevenzione di frane e incendi. Si è persa anche tanta biodiversità di specie vegetali che necessitano di aree aperte. Per permettere ai nostri animali di pascolare allo stato brado abbiamo avuto necessità di bonificare alcune aree e, al contempo, lo stesso pascolo dei nostri animali contribuisce alla cura di questi spazi verdi.

Stefano, quali credi che siano gli elementi chiave per una transizione verso un allevamento sostenibile?

SC: La risorsa principale di un allevamento sostenibile deve essere il pascolo perché senza non può esistere il benessere animale. Il mantenimento e il recupero dei prati stabili e dei pascoli è fondamentale per tenere gli animali fuori dalle industrie della carne.

Poi la salvaguardia e il recupero delle razze rustiche adatte al pascolamento. Il lavoro che noi e Slow Food portiamo avanti con le razze in via d’estinzione coinvolge la Cinta senese, il Nero dei Nebrodi, la pecora cornigliese, così come molte altre.

Infine, è necessario un drastico ridimensionamento del sistema burocratico che assilla le aziende agricole, anche se di piccole dimensioni, che desiderano essere sostenibili. Ad esempio, chi come noi vuole accorciare la filiera e arrivare direttamente al pubblico per spiegare l’importanza del proprio lavoro e il risultato di tanto impegno. Gli enti e le istituzioni devono agevolare le forme di vendita diretta e filiera corta e alleggerire il peso burocratico che schiaccia i più piccoli, attivi nell’accorciare il più possibile la loro filiera, perché questo rappresenta l’unico modo per dare valore aggiunto alle piccole aziende. 

Jacopo, tu hai esperienza in termini di allevamento rispettoso: i tuoi animali vivono allo stato brado e si procacciano il cibo in autonomia in pascoli e boschi e questo è sicuramente un tipo di vita che può garantire il soddisfacimento dei fabbisogni anche etologici degli animali. Ma ti chiedo: il benessere animale è sostenibile anche economicamente?

JG: Già nella parola sostenibilità è compreso l’aspetto economico. Noi manteniamo un modello di produzione etico, cercando di dimostrare – con una fatica incredibile e affrontando quotidianamente mille difficoltà – che non è un’utopia. Gli animali con un elevato livello di benessere sono animali che producono. Per noi il benessere animale vuol dire cercare di proporre quello che riteniamo essere l’ambiente ideale per l’allevamento di quella determinata razza, attraverso un’osservazione attenta del comportamento dei nostri capi. Nell’intensivo si parte dal business, dal prodotto finale, si cancellano la storia e la vocazione del luogo. Bisogna partire invece dall’ambiente, dal paesaggio, proprio per vedere qual è l’animale che meglio si potrebbe adattare o quello che si è già adattato. Nel caso nostro, la razza bovina Maremmana e quella suina Cinta senese. Proprio grazie alla loro osservazione, come dicevo precedentemente, non rischiamo di dimenticarci che questi  abbiano preferenze e che, soddisfacendole, può generare in loro benessere. Noi osserviamo le loro preferenze alimentari nei pascoli, così che gli anni seguenti possiamo organizzare rotazioni e semine in tale direzione. Li osserviamo per vedere come si comportano e da lì basiamo le nostre scelte. Capite che questa è una sfida enorme. 

Cosa può fare l’Unione europea per favorire la transizione verso una produzione di carne sostenibile?

JG: Non ha senso ricercare approcci che incentivino biodiversità e sostenibilità, basandosi però su una Pac che sembra premiare ancora un’agricoltura e una zootecnia intensive e scollegate dalla terra. Bisogna cambiare profondamente il modo di concedere i contributi alle aziende, premiando quelle che si basano sul pascolo, sul mantenimento di aree interne proprio grazie all’allevamento. Questo è un primo passo doveroso per l’Europa se vuole essere coerente coi principi che dovrebbero ispirare politiche locali virtuose. Sarebbe, inoltre, altrettanto importante premiare quelle progettualità che incentivano e promuovono attività di networking, tra agricoltori, enti di ricerca, università e consumatori, per spingerli a sviluppare insieme un progetto in grado di fornire una base pratico-scientifica e che siano in grado di generare un trasferimento dell’innovazione per questa gestione tecnica “tradizionalmente innovativa” di un’azienda agricola.

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