Tra le molte manifestazioni della patologia, quella mieloproliferativa è caratterizzata da un pannello di mutazioni genetiche specifiche
Sotto al cappello delle sindromi ipereosinofile trovano posto malattie e disturbi che, per ragioni differenti, determinano un innalzamento del livello degli eosinofili al di sopra della soglia di normalità (di solito fissata a >500 cellule/mmc); pertanto, secondo le linee guida si parla di “ipereosinofilia” quando il valore degli eosinofili nel sangue periferico sale a più di 1500 cellule/mmc nel corso di due accertamenti svolti in un arco temprale di sei mesi. Tuttavia, anche di fronte a un’alterazione ematologica di questo tipo, il decorso della malattia potrebbe essere vario dal momento che esistono sindromi ipereosinofile secondarie a processi infiammatori, autoimmuni o neoplastici, oppure altre ereditarie, o altre ancora di incerto significato. Senza dimenticare le cosiddette forme neoplastiche, cioè quelle che rientrano nella categoria delle sindromi ipereosinofile mieloproliferative.
Ognuna di esse merita specifica considerazione ma per fare chiarezza sull’ultima sottoclasse di malattie citata, caratterizzata da un elenco di sintomi precisi - tra cui splenomegalia e infiltrazione eosinofila midollare - e dalla presenza di una data mutazione (come ad esempio, il gene di fusione FIP1L1-PDGFRA) abbiamo intervistato Massimo Breccia, professore di Ematologia e Responsabile dell’unità operativa di Day Hospital Ematologico presso l’Azienda-Ospedaliera Policlinico Umberto I di Roma.
Professor Breccia, come è clinicamente definita la sindrome ipereosinofila mieloproliferativa?
“Dopo aver escluso tutte le cause secondarie reattive dell’ipereosinofilia, è necessario eseguire un’analisi molecolare per valutare la presenza di riarrangiamenti clonali, ad esempio in geni come PDGFRA, PDGFRB e FGFR1, che identificano un gruppo di patologie rare mieloidi o linfoidi in cui si osserva eosinofilia e coinvolgimento di recettori tirosin-chinasici. La maggior parte di queste, soprattutto le più frequenti, come quelle che coinvolgono il riarrangiamento di PDGFRA, possono presentarsi come patologie mieloproliferative croniche con localizzazioni d’organo ben specifiche. Vi sono inoltre le forme con riarrangiamento di FGFR1, che possono essere diagnosticate anche in forme di leucemia linfoblastica acuta. Nella nuova revisione della classificazione dell’Organizzazione Mondiale della Sanità sono state aggiunte altre forme ancora più rare, come quelle con riarrangiamenti di JAK2, F1T3 e ETV6, ma pochi casi sono stati al momento descritti. In assenza di tali alterazioni clonali, è necessario eseguire un’analisi del midollo ed escludere la presenza di elementi blastici e/o alterazioni citogenetiche o molecolari differenti da quelle sopra citate per porre una diagnosi di “chronic eosinophilic leukemia, not otherwise specified (CEL-NOS)”. In quest’ultimo caso, un approccio terapeutico standardizzato non è stato ancora dimostrato”.
Quanto è diffusa sul territorio nazionale questa condizione?
“L’incidenza per le forme con riarrangiamento di PDGFRA è di 0,18 casi per milione. Le forme con riarrangiamento di PDGFRB rappresentano il 20% di tutte le forme. Le altre sono estremamente rare”.
Qual è la causa della malattia?
“Non ci sono fattori eziopatogenetici sicuri per le forme mieloidi clonali, ma sicuramente si tratta di patologie che colpiscono la cellula staminale non ancora commissionata che, quindi, può differenziare sia in senso mieloide che linfoide”.
Come è strutturato il percorso diagnostico della malattia?
“La diagnosi si pone a partire dalle manifestazioni cliniche: il riscontro di eosinofilia periferica persistente con più di 1500 eosinofili/mmc è il primo segno da considerare. Spesso nei malati si ha un riscontro di splenomegalia [ingrossamento della milza, N.d.R.] e sono presenti sintomi costituzionali, tra cui febbre, sudorazione e dolori ossei. Alcuni pazienti vanno incontro a un certo dimagrimento. In considerazione dei sintomi iniziali il malato può entrare in contatto con un medico internista, oppure con un immunologo, allergologo o dermatologo per poi far riferimento, in assenza di cause reattive specifiche evidenti, all’ematologo. Quella della sindrome ipereosinofila mieloproliferativa clonale è quindi, molto spesso, una diagnosi ritardata che avviene per esclusione. Perciò è assolutamente necessario un approccio multidisciplinare al problema, mediante un network di lavoro ben stabilito”.
A quale protocollo farmaceutico si ricorre?
“La terapia è variabile in accordo alla forma riscontrata. Il trattamento steroideo è generalmente il primo approccio, seguito da un approccio specifico nel caso delle forme clonali riarrangiate. Le forme con riarrangiamento di PDGFRA e PDGFRB rispondono in maniera eccellente al trattamento con imatinib, un noto inibitore tirosin-chinasico; invece, quelle con riarrangiamento di FGFR1 rispondono meglio ad un altro farmaco recentemente approvato, pemigatinib. Infine, in alcuni casi di sindrome ipereosinofila idiopatica (ovvero in assenza delle cause elencate in precedenza) è possibile utilizzare un regime di trattamento a base di farmaci corticosteroidi e anticorpi monoclonali, come mepolizumab”.
La sindrome ipereosinofila è una condizione che, per le modalità di presentazione, può coinvolgere vari specialisti; pertanto ogni centro accademico può avere esperienza nella presa in carico dei malati e nel trattamento delle diverse forme di malattia che, essendo rara, non trova un lungo elenco di centri di riferimento sul territorio nazionale.