Scuola di Diplomazie Interspecie al Museomontagna - MONTAGNA

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Qualcuno forse risponderà con nomi di cime, di creste e punte di pietra e roccia: Monviso, Gran Paradiso, punta d’Arnas, Malanotte, Cristalliera, Civrari…
Le rocce che compongono la catena Alpina non sono sempre state lì. Sono in maggior parte rocce esotiche, africane. Sotto sedimenti dell’antico Oceano Ligure-Piemontese. E ancora sotto rocce europee. Strati, creati dai movimenti delle placche euro-africane. Guardando queste rocce, possiamo constatare la natura epidermica dei confini che gli umani hanno stabilito in poco meno di 6.000 anni. Ma percepiamo anche relazioni antiche quanto la terra stessa, una forma di intimità generativa che fatichiamo tuttora a riconoscere. All’inizio di questo percorso abbiamo notato come ogni territorio sia situato, unico, come la Montagna è sempre quella-specifica-Montagna e mai solo una Montagna. Come la conoscenza diplomatica è intimità tra corpi umani e corpi altri, anche rocciosi, minerali, aerei, e coabitazione secolare, parentele mitiche.
In questa bio-orogenesi i nomi di picchi, bocche e selle, pareti e cenge, vallette e pietre sono molti, precisi e -spesso- personali. Dietro di essi si distinguono modi di vita secolari, costruiti da esseri animali, vegetali e minerali. Questi ultimi sono per noi i più difficili da immaginare come partner ecologici in una costruzione collettiva del paesaggio. Guardare le Montagne in questi termini, come assemblaggi o olobionti, richiede di accettare che non solo i viventi sono capaci di agire e di influenzare il pianeta. Per riconoscere l’agentività delle rocce e delle Montagne possiamo iniziare dal chiederci con H. Reinert: “che tipo di creatura potrebbe essere una pietra? Ha una vita, o qualcosa di simile? Quali forme di coinvolgimento affettivo – o di amore, o di intimità – può offrire una pietra?” [1]

Nella cultura andina le montagne sono riconosciute come esseri viventi che partecipano e influiscono sulla vita degli esseri umani. L’attenzione delle politiche e dell’attivismo andino alla prospettiva di questi soggetti non biologici, ha permesso di mettere in discussione la concezione biocentrica della vita e della persona, ma qui non abbiamo nomi o parole per esprimere questa partecipazione.

Anche se fatichiamo a riconoscere concettualmente che la vita che è nata dai minerali e poi i minerali sono nati dalla vita, molte leggende ci guidano in questa direzione. Storie in cui le vite di Montagne, animali e esseri umani sono intrecciate in un tessuto di legami che raccontano la una comune discendenza, una sorte condivisa.
Un animismo occidentale scorre in narrazioni e miti, nelle topografie di luoghi nei quali talora animali si trasformano in rocce, talaltra le pietre si animano, le montagne si muovono e parlano, rendendo visibile come “la pietra non è altro che vita immobilizzata, animalità sospesa per un periodo imprecisato.” [2]

A queste cosmogonie partecipano il popolo dei Croderes, i figli delle rocce. Processioni di fate che la notte del 7 settembre van dal Monviso alla basilica di Superga. Anime dei morti che abitano i ghiacciai. Donne d’acqua e marmotte mutaforma. Tanna, Kelina o Dindia, donne potenti, trasfigurazioni della grande dea.
Affacciamoci alla terrazza del Museo e guardiamo verso i monti: forse vedremo rocce e cenge, forse comunità interspecie che resistono o cedono alla globalizzazione neoliberale della natura o forse il profilo della Gemsenfräulein, Signora dei camosci, capace di attirare la rovina sui cacciatori irrispettosi. In tutti questi casi le diplomazie interspecie ci aiutano a comprendere che stiamo guardando dei soggetti, soggetti politici in attesa di essere riconosciuti e coinvolti in un diritto e in una politica più che umana.

[1] H. Reinert, Some Notes on Geologic Conviviality

[2] Dean, Carolyn J.,  A Culture of Stone: Inka Perspectives on Rock.

Recapiti
Andrea Lerda