Il giorno 16 ottobre 2024, il Senato della Repubblica ha approvato il disegno di legge numero 824 a prima firma Carolina Varchi, che estende la perseguibilità del reato di surrogazione di maternità commesso all’estero da cittadino italiano. 

A seguito dell’entrata in vigore della legge, l’articolo 12 comma 6 della legge 40 del 2004 che detta norma in materia di procreazione medicalmente assistita sarà così formulato: 

Chiunque, in qualsiasi forma, realizza, organizza o pubblicizza la commercializzazione di gameti o di  embrioni o la surrogazione  di maternità è punito con la reclusione da tre mesi a due anni e con la multa da 600.000 a un milione di euro. Se i fatti di cui al periodo precedente, con riferimento alla surrogazione di maternità, sono commessi all’estero, il cittadino italiano è punito se­condo la legge italiana.

 La modifica consiste, dunque, non nella previsione di altre fattispecie, condotte o circostanze del reato, bensì nell’estensione oltre i confini nazionali della perseguibilità del reato di surrogazione di maternità anche quando venga commesso in un territorio che considera quella pratica legale.  L’aver introdotto una deroga così evidente ai principi generali che governano l’applicabilità della giurisdizione nazionale pone diversi problemi sia di natura sostanziale che procedurale, nonché di rapporti internazionali

Il reato di surrogazione di maternità: questioni introduttive

Il reato di surrogazione di maternità introdotto dalla legge n. 40 del 2004 punisce chiunque, inclusi i genitori committenti e tutte le persone coinvolte nella pratica, realizza, organizza o pubblicizza la commercializzazione di embrioni o gameti e la surrogazione di maternità. La formulazione del reato previsto dalla legge 40 pone molti problemi di “legalità” soprattutto in relazione alla tecnica normativa adottata. Di fatto il legislatore non fornisce una descrizione della condotta punita, nè nel nostro ordinamento è rintracciabile una definizione dell’espressione “surrogazione di maternità”, che viene quindi lasciata all’immaginario collettivo che si ha di tale tecnica di fecondazione assistita. 

Questo crea numerosi problemi di tassatività e determinatezza della fattispecie tanto che la dottrina ha spesso evidenziato che in assenza di chiara definizione risulta difficile l’individuazione del “segmento della maternità surrogata che il legislatore ha inteso incriminare”

In dottrina si è spesso discusso anche sull’individuazione del momento penalmente rilevante, tanto che per alcuni (Losappio) la stipula del contratto, ovvero l’accordo con la gestante sarebbe già idoneo a integrare il reato. Dottrina maggioritaria ritiene che l’intervento penale non possa precedere la concreta esecuzione della pratica salvo poi non concordare sul momento in cui si perfeziona il reato se già con il trasferimento in utero dell’embrione ovvero con la successiva condotta di affidamento del minore ai genitori intenzionali

La legge è molto confusa anche rispetto all’individuazione dei soggetti passibili di sanzione in quanto il riferimento a “chiunque” sia coinvolto nel percorso, potenzialmente coinvolge oltre al personale medico e ai genitori intenzionali anche la stessa gestante, la quale da vittima del reato ne diventerebbe autrice. All’interno di questo quadro incerto “non deve stupire che sia dubbio se la fattispecie della surrogazione solidale ricada o meno nella ratio della norma, dal momento che la formulazione del divieto si presta a opposte interpretazioni e l’estremo rigore della disciplina penalistica indurrebbe a una previsione riferita solo alla forma onerosa”.

Dunque siamo in presenza di un reato che si presta a interpretazioni molto diverse fra loro, pena la certezza, per i consociati, destinatari del divieto, di conoscere esattamente cosa sia consentito e cosa sia reato. 

La surrogazione di maternità come reato universale: la legge Varchi

Occorre premettere che in generale gli Stati, inclusa l’Italia, hanno il potere di esercitare la propria giurisdizione sul territorio nazionale. Un’eccezione a questo meccanismo è la c.d. giurisdizione universale, che si fonda sul riconoscimento della rilevanza transnazionale, appunto universale, di determinati gravi reati. Alcune norme internazionali sono talmente rilevanti da valere in ogni luogo: tutti gli Stati devono impegnarsi affinché tali norme siano rispettate e affinché le loro eventuali violazioni siano perseguite; casi emblematici riguardano crimini estremamente gravi quali il genocidio, la tortura e i crimini di guerra. In effetti, diverse disposizioni codicistiche sono dedicate ai casi in cui è possibile estendere la giurisdizione italiana ai reati commessi all’estero (artt. 7- 10 c.p.), in risposta a diverse esigenze statuali.

L’attuale legge Varchi è stata introdotta nel nostro ordinamento sulla base dell’articolo  7, n. 5 del codice penale italiano. Infatti, l’articolo 7 c.p., che prevede la deroga al principio della territorialità in relazione ad alcuni reati punibili incondizionatamente secondo la legge italiana, anche se commessi all’estero dal cittadino o dallo straniero, stabilisce in particolare, al n. 5, che sono punibili secondo la legge penale italiana i reati per i quali speciali disposizioni di legge o convenzioni internazionali ne stabiliscono l’applicabilità.

La legge Varchi è dunque una speciale disposizione di legge, che deroga non solo al principio di territorialità a cui in ragione della struttura del reato sarebbe dovuta essere assoggettata, ma anche agli articoli 9 e 10 che introducono una deroga al principio di territorialità prevedendo appunto una giurisdizione universale sulla base di certi presupposti. 

Siamo dunque in presenza di una deroga della deroga

Tale possibilità è di fatto prevista dal codice penale, ma in ragione di questa “specialità” a oggi, la dottrina maggioritaria, partendo anche dai lavori preparatori al codice penale del 1930 (Relazione ministeriale del progetto di codice penale, p. 37), la lega indissolubilmente alla presenza della cosiddetta doppia incriminazione. In questo modo il legislatore potrebbe prevedere la perseguibilità all’estero di un fatto di reato commesso da cittadino italiano quando tale fatto sia previsto come reato anche nel paese straniero. Questo a tutela innanzitutto del principio di legalità, sia nella declinazione nazionale (articolo 25 Cost) che internazionale (articolo 7 CEDU).

Valutazioni di diritto internazionale

Come emerge dai lavori parlamentari, la scelta di sottoporre alla giurisdizione italiana, coloro che intendono costituire una famiglia attraverso la GPA all’estero è giustificata dalla qualificazione di questa pratica come gravemente lesiva della dignità individuale, in particolare quella della donna. Con l’introduzione di un divieto di questo genere, l’Italia vorrebbe porsi come uno dei Paesi in prima linea per raggiungere un accordo internazionale che ne comporti la criminalizzazione a livello universale.

A tal proposito, un esame delle posizioni espresse in seno a organizzazioni a carattere universale o europeo nonché delle legislazioni internazionali in materia dimostra un’evoluzione verso la regolamentazione volta a prevenire violazioni dei diritti umani anziché una condanna tout court della GPA come pratica contraria al rispetto dei diritti umani.

Lo dimostrano, in particolare, gli sviluppi emersi in seno alle Nazioni Unite, la sede più rappresentativa per verificare l’esistenza di qualsiasi tipo di consenso internazionale in materia che faciliti o meno l’eventuale conclusione di un accordo volto alla criminalizzazione universale della GPA. Oltre ai richiami espressi dai meccanismi di monitoraggio di taluni trattati sui diritti umani nei confronti di singoli Stati, appaiono significativi i lavori della Special Rapporteur sulla vendita e lo sfruttamento sessuale dei bambini, ossia l’unico organo che finora ha dedicato un’attenzione specifica al tema. Mentre nel 2016 l’allora Special Rapporteur Maud de Boer-Buquicchio esprimeva forte preoccupazione sul ricorso alla GPA per via delle possibili conseguenze in termini di adozioni illegali, le successive raccomandazioni espressamente elaborate sulla tutela dei fanciulli nati attraverso la GPA presentano posizioni più articolate. In primo luogo, esaminando la questione della GPA alla luce dei divieti previsti dal Protocollo opzionale alla Convenzione sui diritti del fanciullo concernente la vendita, la prostituzione e la pornografia rappresentante persone di minore età, questi lavori rilevano un vuoto normativo in materia a livello internazionale. In secondo luogo, sulla base del riconoscimento della GPA come una delle modalità di procreazione per coloro che non possono avere figli in altro modo, gli stessi lavori non rigettano la GPA a priori. Anzi, attraverso le raccomandazioni in essi contenute, la Special Rapporteur ha invitato le Parti a regolamentare la GPA poiché, oltre alla forma c.d. altruistica che non comporta in via di principio la vendita di minori se adeguatamente disciplinata, anche la “commercial surrogacy may not constitute sale of children if it is closely regulated in compliance with international human rights norms and standards. La Special Rapporteur ha anche identificato gli aspetti principali di questa possibile regolamentazione, come ad esempio il divieto di compensi non giustificati per le donne gestanti; una rigida disciplina e monitoraggio degli eventuali enti intermediari. È bene precisare, a fronte delle esigenze di tutela della donna, che i lavori della Special Rapporteur fin qui richiamati condannano pratiche lesive della dignità individuale ma senza che ciò possa comportare “a restriction of women’s autonomy in decision-making or of their rights to sexual and reproductive health”, nell’evidente intento di evitare la riproposizione di visioni stereotipate o d’ispirazione patriarcale della stessa persona che si intende proteggere. 

In sintesi, le suddette raccomandazioni depongono in senso contrario rispetto al divieto assoluto della GPA. Non è dunque possibile derivare un obbligo internazionale che imponga alle Parti, inclusa l’Italia, di vietare la GPA e di perseguirne la violazione in generale, specialmente quando essa abbia luogo in un Paese straniero che per altro la consente e la regolamenta. “Inoltre, al pari di altri contesti, ad esempio nell’ambito dei lavori della Conferenza dell’Aja sui profili di diritto internazionale privato in materia di GPA, questi pochi – ancorché significativi – elementi emersi in seno alle NU segnalano l’inesistenza di un consenso universale sulla gravità di questa pratica rispetto ai valori su cui convergono gli strumenti in materia di diritti umani. Al contempo, essi evidenziano l’esigenza di regolamentarne il ricorso per evitare situazioni che possano comportare la violazione di diritti protetti da specifiche convenzioni internazionali, come appunto il divieto di vendita di minori o i vari obblighi volti a prevenire lo sfruttamento e l’abuso della donna, ma non l’incompatibilità della GPA per sé con il diritto internazionale dei diritti umani”.

La GPA non è stata mai presa in considerazione nel quadro di strumenti universali volti all’identificazione dei c.d. crimini internazionali, né dai meccanismi istituiti per la loro repressione. Se facciamo riferimento, ad esempio, allo Statuto della Corte Penale Internazionale che ha codificato tali crimini relativamente a genocidio (articolo 6), crimini contro l’umanità (articolo 7) e crimini di guerra (articolo 8), la loro qualificazione dipende dalla lesione che tali fattispecie comportano a valori ritenuti fondamentali dalla Comunità internazionale in quanto tale e non a interessi “specifici” di uno o più Stati o legati alla tutela di valori identitari di una maggioranza di essi.  Infatti, mentre i crimini internazionali richiamati non possono mai essere compatibili con i diritti umani, la GPA potrebbe invece essere conforme agli standard internazionali ed europei in materia se adeguatamente regolamentata come suggeriscono i lavori della Special Rapporteur fin qui citati. Simili considerazioni riguardano anche il profilo della repressione. 

Questa è anche la direzione in cui sta andando l’Europa che ha di recente approvato modifiche alla Direttiva anti-tratta 2011/36/Ue, con cui si chiede agli Stati membri di prevedere sanzioni penali per le sole forme di costrizione e sfruttamento della GPA. 

Appare indicativa anche la proposta di regolamento elaborata dalla Commissione europea al fine di disciplinare il reciproco riconoscimento della filiazione all’interno dell’Unione. Questa non prevede alcuna clausola di esclusione per via del ricorso alla GPA proprio perché, se essa ha luogo in uno Stato membro o in Stati terzi che lo permettono, non si riscontra un contrasto sostanziale con i diritti fondamentali applicabili nel quadro dell’Unione.

Tuttavia, nonostante la tendenziale condanna di tale pratica quando comporti la mercificazione dei nati e lo sfruttamento della donna che, in varie forme, emerge in tali sedi, i recenti sviluppi mettono in discussione la presunta assoluta incompatibilità della GPA con i diritti umani e nello stesso tempo non supportano l’estensione della criminalizzazione a tutte le forme tramite cui tale pratica viene condotta. 

Tutto ciò evidenzia anche l’irragionevolezza della comparazione con crimini internazionali e del potenziale ricorso alla giurisdizione universale in materia di GPA, non essendo rintracciabili né quel diffuso consenso all’interno della Comunità internazionale sulla necessità di perseguirla più o meno ampiamente, né i diversi valori che stanno alla base dell’istituzione dei meccanismi di cooperazione oggi disponibili per condannare e perseguire quei crimini.

Valutazioni di natura costituzionale

Il principio della doppia punibilità non è previsto in forma espressa nel codice penale rispetto all’applicazione della giurisdizione italiana per fatti commessi all’estero, ma la dottrina maggioritaria lo ha sempre considerato un principio implicito, in assenza del quale si porrebbero seri problemi di rispetto della Costituzione. 

La tesi della doppia punibilità si basa infatti sul principio di legalità per cui non si può contestare un reato se questo non è previsto dalla legge come tale, esattamente in conformità al principio espresso dall’articolo 25 della Costituzione. 

Gli articoli 8-10 del codice penale rappresentano dunque una deroga a questo principio che invece viene espressamente previsto dall’articolo 13 c.p. rispetto all’istituto dell’estradizione. Questo avviene per ragioni pratiche di necessaria collaborazione fra autorità giudiziarie. La scelta di estendere la punibilità di fatti commessi da cittadini italiani all’estero, dove tali fatti non costituiscono reato, si pone in evidente contrasto con i seguenti principi costituzionali e internazionali, a partire del principio di legalità, di offensività e di uguaglianza.

Considerazioni sull’applicabilità del reato commesso all’estero (nell’Unione europea) – ORDINE DI INDAGINE EUROPEO 

Il diritto penale rappresenta il baluardo a difesa della sovranità degli Stati. Per questo motivo, nell’ambito del processo di unificazione europea, il diritto penale è rimasto uno degli ultimi settori ad essere esplorati al fine di creare sempre più un’area comune di giustizia. Elemento essenziale per tale operazione, sul fronte processuale, è la libera circolazione della prova penale all’interno dell’Unione. Sicuramente uno dei maggiori problemi delle indagini internazionali è rappresentato dalla diversità di sistemi giuridici tra i vari Stati e l’acquisizione della prova penale nel territorio di uno Stato è sempre rimasta, ed è tuttora, massima manifestazione della sovranità dello stesso, quindi tendenzialmente chiusa all’accesso di altri partner esterni, anche dell’Unione.

In tale scenario, un passo importante per una maggiore integrazione tra gli Stati fu certamente rappresentato dalla decisione quadro del 2002 sul mandato di arresto europeo, per la consegna di indagati, imputati o condannati. La stessa ha avuto il pregio di superare il classico sistema estradizionale tra gli Stati UE, di rendere la procedura essenzialmente di carattere giudiziario anziché politico (tendenza già manifestatasi fin dall’accordo di Schengen e poi nella convenzione di cooperazione del 2000 che però l’Italia non ratificò mai, se non quest’anno quando la stessa stava divenendo ormai uno strumento quasi superato), basata sul principio del mutuo riconoscimento anziché su quello della mera assistenza, e di superare il principio della doppia incriminazione per determinati reati. 

Per quanto riguarda invece gli aspetti probatori, ovvero di acquisizione probatoria, necessaria per poter perseguire fatti di reato commessi all’estero, è intervenuta la direttiva 2014/41/UE del 3.4.2014, pubblicata sulla G.U.U.E. del 1.5.2014 e, successivamente, con il suo recepimento nel sistema italiano con il D. Lvo 21.6.2017, n. 108, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale del 13.7.2017, entrato in vigore il 28.7.2017 che ha introdotto l’istituto dell’ordine di indagine europeo (OEI). 

Anche l’acquisizione della prova si basa, quindi, oggi, sul principio del mutuo riconoscimento e non richiede, per una lista di trentadue reati, il principio della doppia incriminazione. Per tutti i reati non rientranti in questa lista il Paese di esecuzione può rifiutarsi di collaborare proprio in riferimento al fatto che la doppia incriminazione, rappresenta uno dei motivi di non riconoscimento o di non esecuzione (Art. 11 della direttiva OEI). 

Questo significa che di fatto le Procure potrebbero trovarsi nella situazione in cui le uniche prove accessibili siano nella disponibilità degli indagati, che per garanzie processuali non sono in alcun modo obbligati a collaborare in quanto le autorità straniere dei paesi cosiddetti “di esecuzione” potranno decidere di autorizzare le indagini sul proprio territorio.