A settembre 2024 il dato sull’occupazione in Italia ha registrato un nuovo record nelle serie storiche dell’Istat. Il 62 per cento della popolazione in età da lavoro è occupata, solo il 6,8 per cento è disoccupata e i dati da un trimestre all’altro dell’anno in corso parlano di crescite pari a 124 mila nuovi lavoratori. Eppure nell’immaginario collettivo del nostro Paese prevale un’idea di mercato del lavoro precario, sfruttato, bloccato. Da qui la partenza, in numero sempre più cospicuo di giovani in cerca di un’esperienza lavorativa all’estero: maggiori opportunità, stipendi più alti alla base delle partenze (puoi scaricare l’intervista in pdf, presente nel numero 4 di Segno nel mondo con il dossier Rivoluzione lavoro, cliccando qui).
Rivoluzione lavoro
Ma al di là delle tendenze che facilmente osservabili, oggi nel nostro Paese è in atto una rivoluzione che riguarda il modo in cui si approccia al lavoro. «Proviamo a fare un confronto tra generazioni – propone Daniele Marini, docente di Sociologia dei processi economici all’Università di Padova – Se chiediamo “quanto conta per te il lavoro?” oltre il 65 per cento degli over 65 ci dirà che è la cosa più importante, mentre questa percentuale cala al 43 per cento se ci rivolgiamo ai membri della cosiddetta generazione Z, cioè i 18-34enni di oggi. Dai dati che abbiamo, dunque, sembra che la percezione dell’importanza del lavoro sia direttamente proporzionale al crescere dell’età». A
partire da questi dati, il prof. Marini ha sviluppato una serie di considerazioni nel volume Il Posto del Lavoro, scritto a quattro mani con la psicologa Irene Lovato Menin, edito per i tipi del Sole 24 ore, che ha per sottotitolo La rivoluzione dei valori della GenZ.
Dunque prof. Marini, stanno saltando molte delle categorie che da sempre associamo al lavoro, come l’auto realizzazione e la dignità della persona?
Occorre innanzitutto operare alcune distinzioni. Il mondo giovanile, anche rapportato al tema del lavoro, non è un tutt’uno indistinto. Se guardiamo all’aspetto strutturale del lavoro bisogna dire che oggi l’accesso alle professioni avviene per molti a singhiozzo, paradossalmente molto di più per coloro che hanno investito in lunghi percorsi formativi.
Per scendere nel concreto, un laureato in architettura, in psicologia o in giurisprudenza devono sottoporsi stage e tirocini prima di stabilizzarsi, al contrario di giovani con diplomi tecnici triennali o quinquennali arrivano molto prima a definire la loro situazione occupazionale specie nell’industria e nel manifatturiero, più complessa è la situazione di chi opera nel terziario o nei servizi.
E per quanto riguarda l’aspetto valoriale e simbolico del lavoro?
Le giovani generazioni sono portatrici di un’idea di lavoro differente rispetto a chi li ha preceduti. Qualche segnale era presente anche in epoca pre-Covid, ma i due anni di pandemia hanno dimostrato in modo plastico che il lavoro può essere vissuto in modo diverso. Un dato ci fa capire molte cose: prima del 2020 in Italia operava da remoto l’1,2 per cento dei lavoratori italiani, tutti concentrati nel terziario, comunicazioni, banche o finanza. Il coronavirus ci scaraventa tutti a casa e tocchiamo il 30 per cento di smartworking, oggi ci attestiamo attorno al 15-20 per cento.
Eppure abbiamo sperimentato che, nonostante questo, il mondo e le aziende sono andate avanti lo stesso: la situazione inedita che si è creata ha dato la stura all’idea che, sì, il lavoro è importante, ma svolgendolo da remoto è possibile coniugare meglio altre dimensioni della vita, dalla cura di figli o anziani all’organizzazione del tempo libero, dallo sport alla fruizione della cultura.
Come approcciano quindi il lavoro i giovani sotto i 34 anni?
Come uno dei tanti fattori, tutti della stessa importanza che compongono l’esistenza, Possiamo rappresentare il panorama valoriale dei più giovani come un puzzle in cui le persone integrano le diverse dimensioni della vita. Non c’è più una separazione tra lavoro e resto della vita, le cose tendono a compenetrarsi, i giovani guardano alla persona nella sua integralità.
Quali sono allora i criteri attraverso i quali si sceglie un’occupazione oggi?
La considerazione di un posto di lavoro dipende certamente dallo stipendio, dai diritti e dalle tutele, ma anche da aspetti più immateriali come la flessibilità negli orari, il percorso di carriera e l’offerta formativa, oltre al clima relazionale che si respira nell’ente o nell’impresa e la sostenibilità dell’impresa stessa. I nostri referenti nel settore delle risorse umane ci dicono che la prospettiva tradizionale si è rovesciata da tempo: non sono più le aziende che al termine di un colloquio dicono al candidato “le faremo sapere”, è il candidato stesso che si congeda dicendo all’imprenditore “le farò sapere se la sua offerta mi interessa”.
Quali effetti produce questo approccio sul piano pratico?
In una situazione di carenza di manodopera, i datori di lavoro tendono ad andare incontro alle esigenze e alle aspettative dei loro collaboratori più giovani. Solo che due minuti dopo si trovano ad affrontare le rimostranze dei più anziani che chiedono parità di trattamento. In aziende il problema generazionale è un fatto e porta con sé una serie di precompressioni: se i giovani staccano precisamente all’orario stabilito passano per lavativi, rispetto ai più grandi, disposti a fare straordinari.
In realtà non è così, se opportunamente coinvolti e formati, i giovani si appassionano al lavoro e si sentono parte dell’azienda, ma il loro portato valoriale costringe le imprese a rivisitare complessivamente la loro organizzazione. Da un modello “fordistico” è necessario passare a un modello basato sugli obiettivi da raggiungere, garantendo flessibilità nel modo in cui si raggiungono.
Un tale approccio non rende complesso programmare il lavoro in un tempo in cui l’incertezza è di per sé una costante?
Potremmo dire che l’incertezza è oggi l’unica certezza per le aziende e in realtà per tutti noi. Viviamo in un mondo in cui non abbiamo idea di cosa accadrà non tra cinque anni, ma anche tra un mese. Questo fattore tuttavia è determinante sia in un modello fordista di organizzazione del lavoro sia in un modello per obiettivi. È necessario porre in secondo piano le funzioni per privilegiare il focus.
A plasmare l’idea del lavoro come elemento essenziale per l’esistenza nelle generazioni più avanti negli anni, un ruolo importante l’ha avuto anche un’attenzione al futuro, al risparmio, alla previdenza. Oggi non è più così?
Il contesto sociale è mutato molto non solo negli ultimi 150 anni, ma anche nell’ultimo decennio. Per le generazioni precedenti il lavoro ha rappresentato uno strumento importante per il riscatto sociale. Fino a tutti gli anni Cinquanta del secolo scorso, la maggior parte degli italiani era impegnata in agricoltura e sottoposta a tutte le incertezze del settore primario, come la siccità o l’eccesso di precipitazioni. L’arrivo della fabbrica, con un’occupazione e un salario stabili, ha rappresentato un grande passo avanti e il riscatto sociale per ampie fasce di popolazione.
Il lavoro come riscatto sociale
Oggi, grazie al benessere diffuso che abbiamo raggiunto, il lavoro riveste un ruolo diverso, più di gratificazione personale che di riscatto sociale. Quando si lavorava per necessità si accettava ogni tipo di opportunità, oggi i giovani al limite accettano un’occupazione qualsiasi solo finché ne trovano una di meglio oppure si astengono finché non trovano un lavoro in linea coni loro studi o i loro desiderata. Non a caso molti posti di lavoro sono scoperti oppure occupato da personale straniero.
Oggi il lavoro è una tra le molte scelte da compiere, certamente anche perché spesso alle spalle di un giovane c’è una famiglia che lo mantiene e che gli permette di vivere con tranquillità quella fase della vita.