Neoplasia a cellule dendritiche plasmacitoidi blastiche, un intervento tempestivo può fare la differenza

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La video-intervista al prof. Emanuele Angelucci, Direttore dell’U.O.C. di Ematologia e Terapie Cellulari presso l’IRCCS Ospedale Policlinico San Martino di Genova

È un tumore ematologico molto raro - solo in Italia si registrano meno di 30 nuovi casi all’anno - che nel corso del tempo è stato classificato in diversi modi ma che oggi rientra nel gruppo delle neoplasie istiocitiche a cellule dendritiche: parliamo della neoplasia a cellule dendritiche plasmacitoidi blastiche (BPDCN), una condizione poco conosciuta ma molto pericolosa che, se non individuata e trattata per tempo, può comportare una prognosi infausta per il paziente. La diagnosi precoce rimane perciò l’obiettivo primario, per poter aggredire quanto prima la malattia con le nuove terapie mirate, grazie a cui le condizioni di vita dei pazienti possono migliorare sensibilmente. Lo spiega il professor Emanuele Angelucci, Direttore dell’U.O.C. di Ematologia e Terapie Cellulari presso l’IRCCS Ospedale Policlinico San Martino di Genova (clicca qui o sull’immagine dell’articolo per guardare la video-intervista).

Fino a qualche tempo fa non esisteva un approccio condiviso alla gestione della BPDCN”, afferma Angelucci. “La malattia, di per sé molto aggressiva, veniva affrontata con gli schemi terapeutici propri delle leucemie acute o dei linfomi maligni, a seconda delle esperienze dei singoli centri ospedalieri”. Infatti, a causa del coinvolgimento del midollo osseo, con il prodursi di una marcata citopenia, la BPDCN era stata inizialmente accostata alle leucemie e solo successivamente, con i passi avanti nella conoscenza della malattia, è stata riconosciuta come una condizione ematologica a sé stante. Nonostante ciò, la linea di trattamento impiegata è rimasta per lungo tempo ispirata alle patologie leucemiche, modulata di volta in volta in base all’età e alle condizioni del singolo paziente, senza uno standard preciso.

Oggi, però, l’arrivo del farmaco tagraxofusp ha rivoluzionato tutto. “Si tratta di una proteina chimerica ricombinante che agisce in maniera specifica, andando a riconoscere un antigene di membrana sulle cellule malate per colpirle selettivamente”, precisa Angelucci. “Questo ha ridefinito la strategie terapeutiche per la BPDCN, perché per la prima volta si è potuto usufruire di una terapia specifica per questo tipo di malattia”. Il trattamento con tagraxofusp deve essere mantenuto e portato avanti in tutti i pazienti che mostrino una risposta positiva, senza però dimenticare che il trapianto di cellule staminali ematopoietiche da donatore rimane l’unico approccio potenzialmente curativo per la BPDCN. “Il trapianto - conclude Angelucci - si rende necessario sempre, in tutti i casi in cui il paziente è candidabile, cioè quando abbia un’età o sia in condizioni fisiche tali per cui, nel rapporto rischio-beneficio, la procedura costituisca un vantaggio”. Per questo motivo, quindi, nella BPDCN la diagnosi precoce e il rapido accesso al trattamento possono fare la differenza.

Recapiti
info@osservatoriomalattierare.it (Enrico Orzes)