7 Maggio 2024
L’importanza della rappresentazione: disabilità e linguaggio inclusivo
Il cosiddetto linguaggio inclusivo nel giornalismo è chiaramente una questione di primaria importanza. La comunicazione, mutando di pari passo ai cambiamenti culturali, è naturalmente suscettibile di aggiornamenti e per restare attuale, affidabile e credibile, il giornalista e più in generale chi lavora nell’ambito della comunicazione, deve necessariamente adeguarsi al sentimento generale, soprattutto quando le indicazioni arrivano direttamente dai soggetti coinvolti.
È grazie agli attivisti che si sono guadagnati una loro platea sulle piattaforme social se il dibattito sul linguaggio inclusivo ha avuto un repentino e dovuto aggiustamento, conseguente all’amplificazione delle voci di chi sta chiedendo che la lingua si evolva e sia più rappresentativa per ogni soggetto.
Tralasciando in questa sede concetti più ampi, come l’abilismo e la discriminazione, anche se sono alla base degli errori che qui vi indichiamo come evitare, vogliamo oggi concentrarci su quello che più ci interessa, ovvero una corretta comunicazione sul tema della disabilità.
Poiché le persone con disabilità rappresentano la più grande minoranza sociale al mondo, circa il 20% della popolazione globale, è necessario che si adotti un linguaggio adeguato. Prendiamo quindi spunto dalla recente pubblicazione del manuale dal titolo Comunicare la Disabilità, pubblicato sul sito dell’Ordine dei Giornalisti (disponibile gratuitamente), per delineare alcune semplici indicazioni di base che vogliamo offrire a chiunque si trovi a comunicare sulla disabilità o di persone con disabilità.
Il concetto di base da cui partire è la necessità di dare priorità alla persona. Ovvero normalizzare la disabilità: non sentirsi obbligati a menzionarla sempre, ma solo se necessario ai fini del racconto. L’idea è quella di spiegarla con semplicità contestualizzandola nella vita del soggetto di cui vogliamo parlare. Questo significa che descrivendo un evento in cui è coinvolta una persona con disabilità, questa persona deve essere descritta innanzitutto come tale: un bambino, una maestra, una ragazza, un politico e solo se necessario menzionare anche la sua disabilità.
Quando si arriva a parlare della disabilità, la persona va sempre al primo posto. Ciò significa che si parla di bambino con autismo, di una maestra cieca, di una ragazza con sindrome di Down, di un politico paraplegico.
Su questo punto è necessario aprire una breve parentesi sui concetti di Person First e Identity First. Nel primo caso l’approccio è quello di definire una “persona con disabilità/autismo/diabete”, mentre nel secondo si parla di “persona disabile/autistica/diabetica”: è la modalità di comunicazione adottata al momento anche dalle istituzioni internazionali come l’ONU. Il secondo approccio è molto diffuso tra gli attivisti, impiegato in un’ottica di autodeterminazione. Nel dubbio, se è possibile, è meglio chiedere alla persona stessa quale definizione preferisce che si usi.
Quando è necessario, perché è utile per la storia che si sta raccontando e non per additare in qualche modo il soggetto, allora è meglio specificare il tipo di disabilità, perché è chiaro che queste sono una diversa dall’altra e le persone con disabilità di cui si vuole parlare si distinguono l’una dall’altra per caratteristiche e necessità. Come è facile intuire i bisogni di una persona con disabilità fisica non sono gli stessi di una persona con disabilità intellettiva, ma la realtà è che le disabilità sono personali e ciascuno ha bisogni differenti, come d’altronde chiunque a prescindere dall’essere o meno una persona disabile.
Dobbiamo davvero dirlo? E allora diciamolo, perché in questi casi è meglio sempre ribadire: non si usano più termini come “handicappato”, “diversamente abile”, “portatore di handicap” (quest’ultimo sottintende che la disabilità sia un fardello da portare”) o anche invalido (non valido?) o ancor peggio “ritardato” o “minorato”. E naturalmente è inconcepibile che questi termini vengano utilizzati in una comunicazione per insultare o per fare dell’umorismo in negativo.
É inoltre consigliato preferire un linguaggio positivo e inclusivo che si concentri sulle capacità e i talenti della persona, non solo sulla sua disabilità. Non bisogna quindi esprimersi per sottrazione, ponendo in evidenza la mancanza come “non vedente” (ma persona cieca) o “non udente” (ma persona sorda).
Evitate sempre l’impiego di termini eccessivamente emotivi quali “tragico”, “afflitto”, “vittima” o descrizioni come “confinato in una carrozzina”. Invece, focalizzatevi su abilità e competenze della persona coinvolta, evitando di mettere in rilievo i suoi limiti. Ad esempio, è preferibile indicare che la persona “utilizza una carrozzina” anziché esprimere concetti come “è relegato”, “costretto” o “confinato su una carrozzina”. La carrozzina, in questo contesto, dovrebbe essere considerata come un dispositivo che favorisce la libertà anziché essere associata a una condizione di costrizione.
Da scartare anche i ritratti di persone con disabilità che risultino “straordinarie” o “eccezionali” oppure “superumane” ovvero evitate il superomismo, l’inspiration porn e il pietismo. Ad esempio, è molto facile incappare in questo errore quando si racconta lo sport, sopravvalutando le imprese di atleti paralimpici, suggerendo così inavvertitamente che non ci si possa aspettare risultati simili. Chiaro, dipende dai risultati e dall’impresa, ma questo è un concetto valido anche per un atleta olimpico. Non bisogna sensazionalizzare il talento e le capacità di persone con disabilità per il fatto che sono “con disabilità”.
Il pietismo, l’inspiration porn e il superomismo sono naturalmente anche da evitare nel descrivere i soggetti vicini alle persone con disabilità, di solito i caregiver e le persone a loro vicine. Diciamo quindi no ad espressioni come “madre/padre coraggio” “madri/padri speciali”, o riferirsi a questi come “sfortunati/meno fortunati”, e alla “vita dolorosa di un genitore di una persona con disabilità”, o del “sacrificio di un genitore di una persona con disabilità”. E tanto meno sottolineare o usare definizioni eroiche di una persona non disabile che è partner di una persona con disabilità.
Ultima indicazione è quella di evitare l’infantilizzazione: le persone adulte con disabilità, sono persone adulte e vanno descritte come tali.
Ci sarebbe tanto altro di cui parlare, per esempio l’approccio intersezionale con cui si dovrebbero descrivere quegli eventi in cui la disabilità si sovrappone ad altre categorie discriminate (ad esempio la violenza su donne con disabilità) o come la cronaca dovrebbe raccontare tragedie come l’omicidio di persone disabili per mano dei loro familiari evitando di empatizzare con l’assassino e giustificarlo, ma anche semplicemente su come la disabilità dovrebbe essere rappresentata nel cinema e in TV. Ma forse ci siamo già dilungati abbastanza e per tanto vi invitiamo ad approfondire l’argomento attraverso testi come quelli indicati qui sotto.
Ricordatevi quindi che l’utilizzo di un linguaggio corretto quando si parla di disabilità, così come di qualsiasi minoranza o categorie di persone discriminate, è fondamentale perché ci sia una reale rappresentazione di queste persone al pari di chiunque altro e contribuisce a creare una società più inclusiva e rispettosa.
Melio Iacopo, è facile parlare di disabilità (se sai davvero come farlo). La comunicazione giusta per un mondo inclusivo, Trento, Erickson, 2022
Paolini Elena/Paolini Maria Chiara, Mezze Persone, Riconoscere e comprendere l’abilismo, Palermo, Aut Edizioni, 2022
Bellaccicco Rosa, Dell’Anna Silvia, Micalizzi Ester, Parisi Tania, Nulla su di noi senza di noi. Una ricerca empirica sull’abilismo in Italia, Milano, Franco Angeli, 2022
Malafarina Antonio Giuseppe, Arrigoni Claudio, Sani Lorenzo, Comunicare la disabilità. Prima la persona, Ordine dei Giornalisti, Consiglio Nazionale, 2024
Marilisa Bruno