La parola Biodiversità è stata usata per la prima volta nel 1986 dall’entomologo Edward O. Wilson.

Oggi molto più diffusa ma ancora ascritta all’ambito scientifico: la Convenzione ONU sulla Diversità Biologica definisce la biodiversità come la varietà e variabilità degli organismi viventi e dei sistemi ecologici in cui essi vivono.

In un quadro più ampio la biodiversità è la possibilità del vivente di attingere a un patrimonio genetico che permette di adattarsi ai cambiamenti, oggi molto repentini, esterni: semplicemente è la nostra garanzia di sopravvivenza.

In termini economici, secondo il rapporto Dead planet, living planet -Unep 2010– si stima in 72mila miliardi di dollari annui il valore dei servizi che la biodiversità fornisce agli esseri umani.

Fagiolo di Laverino, Presidio Slow Food

Eppure, anche qui, abbiamo una trave nel piatto: il 60% dell’alimentazione mondiale si basa su 3 cereali: grano, riso e mais. Pochissimi ibridi selezionati sono venduti agli agricoltori da una manciata di multinazionali.

Tali dati implicano che è a rischio la base di diversità su cui poggia la sicurezza del nostro futuro, infatti le specie e le varietà domestiche, se abbandonate e non coltivate scompaiono. A Expo 2015 Slow Food aveva riunito attivisti e contadini da tutto il mondo a Milano: un agricoltore andino raccontò di coltivare più di trecento varietà di patate. La sua semplicità e il suo sapere antico mi colpirono, insieme alla sua profonda consapevolezza del valore assoluto della biodiversità: trecento varietà di patate che hanno assicurato per secoli nutrimento e vita alla sua comunità e ne raccontano l’identità.

Chuño bianco tradizionale, Arca del Gusto

La nostra nazione è ricchissima in agro-biodiversità, eppure pratiche agricole intensive industriali hanno impoverito, anche paesaggisticamente, già molte aree, basti pensare alle aree iper-sfruttate di pianura.

Il Farmland bird index ci dice che, in Pianura Padana, negli ultimi vent’anni si è dimezzato il numero delle specie di uccelli presenti. È noto il problema della moria degli impollinatori, meno quello del depauperamento della biodiversità nel suolo che ne compromette la fertilità. In ambito marino, lo scellerato tasso di prelievo ittico nel Mediterraneo è doppio del massimo sostenibile per il 70% delle specie.

La tutela non basta più: è urgente un’inversione di tendenza. Serve ripristinare le aree a prato stabile abbandonate promuovendo un allevamento che presuppone il pascolo, fertilizza il terreno e favorisce la presenza di impollinatori; serve sostenere un’agricoltura che prevede siepi, aree umide, oasi spontanee, che permetta la vita della fauna selvatica, di insetti e microrganismi; serve una tutela seria delle aree marine e costiere; urge il potenziamento di una rete di aree protette connesse tra loro.

Tutto questo nella cornice di una governance responsabile che ne garantisca sostegno e continuità. Perché sia chiaro: la biodiversità è forse l’unica ricchezza in grado di salvarci.

Barbara Nappini, presidente Slow Food Italia
da Il Fatto Quotidiano di lunedì 27 gennaio 2025