Il vostro carcere quotidiano

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All’interno dei penitenziari della Dozza a Bologna (852 detenuti, 500 posti) e del Sant’Anna di Modena (576 reclusi, capienza per 372 persone), dove sovraffollamento e autolesionismo minano un già fragile equilibrio di sopravvivenza. Il rosario laico delle richieste di che è dentro, condannato o in attesa di giudizio, la missione degli educatori e il difficile lavoro degli agenti di Polizia penitenziaria. Il diritto alla salute posto troppo in alto, il reinserimento e un mestiere (per pochi) dietro le sbarre. “Almeno lasciateci la dignità”.

Il racconto di un mondo a parte al seguito delle delegazioni regionali guidate dal presidente Michele de Pascale e dall’assessora Isabella Conti

“Siamo dimenticati da Dio, figurati da voi”. Mano sinistra affondata nella tasca della tuta, mano destra che porta la sigaretta alle labbra, Antonio – lo chiameremo così – alla fine della visita ci saluta con lo sguardo di chi ha semplicemente fatto una constatazione mentre, strascicando le ciabatte, se ne torna verso la sua cella. Anzi, come ufficialmente la chiamano qui, la sua camera.

Questione di forma, cella o camera detentiva, ma anche di sostanza. È proprio negli interstizi di queste differenze infinitesimali che prendono forma le contraddizioni di cui è saturo il carcere, in particolare per chi non ne conosce le dinamiche quotidiane. Quel codice di comportamento non scritto che è poi, in realtà, il libro mastro a cui tutti si attengono, detenuti e agenti di Polizia penitenziaria.

Una zona sfumata in cui tutto trova un equilibrio. Il resto, come dice Antonio, “figurati”.

Ma non è una zona grigia, è un equilibrio di sopravvivenza.

Mercoledì 22 gennaio, intorno alle 16, la delegazione regionale guidata dal presidente Michele de Pascale entra alla Dozza. Ci sono anche l’assessora al Welfare, Isabella Conti, il presidente dell’Assemblea legislativa, Maurizio Fabbri, e la vicesindaca di Bologna, Emily Clancy, accompagnati da rappresentanti della Camera penale di Bologna e del consiglio dell’Ordine degli avvocati di Bologna.

Una visita istituzionale, la prima di un presidente di Regione alla casa circondariale di Bologna.

L’obiettivo, inforcando le lenti istituzionali, è quello del confronto, delle proposte. Quello più profondo, navigando a vista, è provare a capire. E bastano pochi minuti per avere la certezza che, più entri nel mondo del carcere, meno ne sai. Ma bisogna provarci.

Dopo la parte formale, in cui vengono squadernati i numeri, quel mondo a parte inizia a prendere forma: ci sono 852 detenuti, anche se il carcere è progettato per 500. Ci si deve stringere per forza nelle celle: dove ce ne sta uno – che è la cosiddetta capienza regolare - ce ne devono stare due, quasi in tutte le celle. Dal punto di vista normativo è considerata una capienza tollerabile. Se si passa a tre per cella, cartellino rosso. Sessanta su cento sono stranieri. Trenta su cento sono tossicodipendenti. Cento su cento vorrebbero avere una vita fuori dal carcere.

Di educatori, quelli che incontrano i detenuti per lavorare sulla riabilitazione e sul loro reinserimento sociale, ce ne sono 9. Praticamente uno ogni cento detenuti. Prima del Covid erano 13, di abbondanza di queste figure professionali qui davvero non s’è mai avuto il problema.

Due giorni più tardi, in visita con una delegazione al carcere modenese di Sant’Anna, i numeri puntano il faro su un contesto identico: una capienza di 372 persone, ma i detenuti sono 576. Gli stranieri sono il 66%, i tossicodipendenti il 30%. Gli educatori, 6%. E il personale che lavora nelle carceri è sempre insufficiente, perché è rapportato alla capienza ufficiale, non a quella effettiva.

Nelle due carceri, nei primi 20 giorni di gennaio si sono tolti la vita quattro detenuti. E un altro si è suicidato nel carcere di Piacenza. Altri due, poi, hanno dato fuoco alla loro cella e sono ricoverati nel centro ustioni di Parma. E febbraio è iniziato con una nuova tragedia, la morte di un 27enne che era in terapia per la dipendenza da sostanze e per la salute mentale. Una situazione che definire drammatica non è sufficiente, è davvero difficile con le parole della quotidianità comporre un quadro esaustivo. Anche se, per una sintesi brutale, due sarebbero sufficienti: sovraffollamento, disperazione.

Che il carcere sia un posto in cui nessuno sta volentieri – i detenuti di sicuro, ma neanche gli agenti di Polizia Penitenziaria, il cui lavoro è di straordinaria difficoltà e l’abnegazione è ammirabile – è evidente nelle tensioni tenute a freno, nelle dissimulazioni, nell’aria.

Già, l’aria. Quando ci si avvicina all’ala delle sezioni, il microclima cambia. A mezz’aria galleggia, densa e permanente, una nube perenne di fumo di sigaretta. L’odore del carcere è innanzitutto questo, satura l’aria, si attacca ai vestiti, riempie i polmoni, sbiadisce i colori. Ci si fa l’abitudine, per forza.

L’odore stagnante del fumo è il preludio che conduce alle sezioni, il luogo in cui ci sono fisicamente i detenuti, dove ci sono le loro celle, dove vivono 24 ore al giorno al netto di qualche ora d’aria in un cortile da cui si vede il cielo.  Arriviamo di fronte a un grande cancello chiuso che separa la zona libera da quella della sezione penale, un lungo corridoio con cancelli che si aprono su decine di celle lungo le pareti. La sezione penale è quella in cui ci sono i condannati in via definitiva, ci spiegano. Quella giudiziaria, invece, ospita i detenuti in attesa del processo.

Quando arriviamo, i cancelli delle celle sono aperti, qualche detenuto passeggia nel corridoio. La nostra presenza inizia a destare curiosità, qualche testa si alza a guardare verso di noi, inquadrano una situazione che rompe la monotonia, un diversivo in un pomeriggio identico a migliaia di altri pomeriggi.

Dalle celle escono i detenuti, senza fretta si avvicinano, le loro mani toccano il cancello, si stringono intorno alle sbarre, qualche viso preme tra la inferriate, qualche braccio esce appoggiato sulle barre trasversali del cancello.

Secondo una liturgia non scritta, ma accettata da tutti, è uno di loro che parla per primo, è evidente che è il leader riconosciuto. Chiede chi siamo, anche se è il gioco delle parti, sanno già chi siamo. Quasi tutti i detenuti hanno la sigaretta tra le dita, molti hanno i denti rovinati da vite di tossicodipendenza, occhi che indugiano sui nostri.

Chi ci parla è un detenuto di colore, in un italiano quasi perfetto, che va subito al punto e sgrana, come in un rosario laico, la sequenza di richieste: la difficoltà di iniziare un percorso con un educatore, la possibilità di un lavoro all’esterno, le condizioni igieniche delle docce (che sono solo 3 per 50 detenuti), poche possibilità di chiamare a casa, acqua fredda, caldo d’estate, le sanzioni considerate troppe severe: una litigata con un altro detenuto può comportare il “rapportino”, la cui conseguenza è che saltano i colloqui con i familiari, le telefonate, altri momenti considerati preziosi. Una sequenza di indicazioni che convergono in una sola frase: “Stiamo pagando, ed è giusto, ma fateci stare bene qui dentro. Lasciateci almeno la nostra dignità”.

Mentre lui parla, la riserva del silenzio di tutti gli altri si sfalda, il gruppo non è più compatto, ognuno pensa al proprio destino. Ecco allora che ogni detenuto punta lo sguardo sui nostri occhi, cerca di intercettare una nostra occhiata e, se questo succede, non la molla più e ti attira all’ascolto della propria situazione, dei propri problemi, della propria giornata e della propria detenzione senza mollare mai lo sguardo diretto, che fai fatica anche solo per educazione a non ricambiare. È fondamentale per ognuno di loro trovare in noi un aggancio per provare a portare all’esterno la loro voce, con la loro storia, storia in cui le richieste sono alla fine identiche a quelle di tutti.

Alcuni hanno un rosario tra le mani, altri al collo, altri ancora arrotolato intorno al polso. La dimensione religiosa, complessa fuori, qui assume percorsi intrecciati a un solo tema, quello della speranza: “Aiutate noi, e Dio aiuta da sopra”, ci dicono i detenuti.

Qualcuno prova a passarci un biglietto, nessuno naturalmente lo prende.

Poi il cancello si apre, entriamo, si formano piccoli capannelli in cui ogni detenuto, con le parole, affida la propria storia a qualcuno della delegazione. Gli agenti della Polizia penitenziaria vigilano con una professionalità indiscutibile, quasi invisibili per non interrompere. Il loro è uno dei lavori più logoranti che si possano immaginare, con un immane livello di stress e con tensioni continue, il rischio di burnout è lì a un passo. Anche per questo il turnover tra di loro è altissimo, il ricambio è di circa il 30% del personale ogni due anni, il che mette gli istituti carcerari in una condizione permanente di fragilità su questo fronte. 

L’italiano è la lingua ufficiale tra i detenuti, declinata attraverso tanti accenti che spaziano dall’est Europa al Maghreb, allargandosi a tutti i Paesi da cui provengono i detenuti, una cosa che può sorprendere solo chi il carcere non lo conosce, ma certamente non chi ci vive e ci lavora.

Tanto per dare un’idea, una delle competenze richieste per gli psicologi che operano in carcere sono gli elementi di base dell’etnopsicologia, quella disciplina che nell’interazione con i detenuti stranieri diventa fondamentale per poter fare riferimento anche alle caratteristiche morali, mentali e intellettuali dei diversi popoli e delle relative culture. Nell’approccio terapeutico, questo risulta fondamentale per riuscire a entrare nella complessità di ogni identità.

Se nessuno, ma davvero nessuno, dice di essere dentro “per un errore giudiziario”, tutti i detenuti concordano che quello è il posto sbagliato per redimersi, perché quel luogo “è l’università del crimine”, ci dice un ragazzo dell’est Europa: “Io entro per furto, ma quando esco sarò esperto di occultamento di cadavere”.

Quando diciamo che stiamo per andare nella sezione giudiziaria, dove i detenuti sono in attesa di un processo, un uomo si mette la mano sulla testa: “Di là è terzo mondo”, ci avvisa. Prima di arrivarci, nel corridoio passiamo davanti alle maglie del Bologna appese lungo i corridoi, quella numero 23 di Alino Diamanti e la 33 di Panagiōtīs Kone, ma arriva subito la voce di chi ci attende oltre il cancello: “Venite, qui c’è gli assassini”, in quell’italiano malfermo che è il suono perenne qui dentro, ma che non lascia dubbi di interpretazione.

Poi, come nella sezione penale, quando il cancello si apre, i detenuti si raccontano, e il contesto non cambia: poche ore d’aria, figli piccoli che si vorrebbero abbracciare, lavoro che non c’è.

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