Perché scrivere un libro dedicato a Sergio Ramelli? Lo abbiamo chiesto a Giuseppe Culicchia | Libri Mondadori

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Dopo aver dedicato due libri alla figura del brigatista Walter Alasia, Giuseppe Culicchia chiude la sua trilogia sugli anni di Piombo con il libro Uccidere un fascista, restituendo complessità e rotondità a una figura - quella di Sergio Ramelli - e una vicenda - la sua uccisione - che dopo cinquant’anni risultano ancora divisive. Il perché ce lo ha spiegato lui stesso.

Perché scrivere un libro dedicato a Sergio Ramelli e alla sua breve vita spezzata dall’odio?

Ci sono inciampato, nella storia di questo ragazzo di soli diciotto anni. Nel senso che un giorno, alla presentazione del libro in cui avevo raccontato quella di Walter Alasia, mi venne fatto notare un errore.

In una pagina di Il tempo di vivere con te avevo attribuito l’uccisione di Sergio Ramelli a Potere Operaio, mentre ad aggredirlo ferendolo a morte a colpi di chiave inglese il 13 marzo 1975, provocandogli il coma che si sarebbe tradotto nell’agonia lunga 48 giorni e infine nella morte il 29 aprile di quell’anno era stato un commando di Avanguardia Operaia composto da otto persone, sette ragazzi e una ragazza: che Sergio Ramelli non l’avevano mai visto, se non in foto. Già: perché Sergio Ramelli era stato schedato in quanto fascista, e una sua fotografia era stata fornita ai membri di quel commando incaricato di “dargli una lezione”.

Usava così, a quel tempo. Si era all’indomani delle stragi di piazza Fontana e piazza della Loggia, e soprattutto a Milano la pratica dell’“antifascismo militante” era la risposta considerata legittima a quelle stragi: poco importava che l’obiettivo di turno nulla avesse a che fare con tutti quei morti. “Uccidere un fascista non è reato”, era lo slogan scandito da migliaia di voci nelle ricorrenti manifestazioni.

Ma com’era stato scelto, tra tanti, Sergio Ramelli? Perché colpire proprio lui?

La risposta è terribile, non saprei definirla altrimenti. Sergio Ramelli venne ucciso perché aveva scritto un tema in classe. In quel tema, aveva stigmatizzato l’assenza di reazioni da parte delle forze democratiche all’indomani dell’omicidio di due militanti missini a Padova da parte delle Brigate Rosse, di fatto le prime due vittime di quelle BR in cui di lì a poco sarebbe entrato Walter Alasia.

Quel tema era finito nelle mani del collettivo della scuola frequentata da Sergio Ramelli, l’ITIS Molinari di Milano, ed era stato appeso nella bacheca dell’istituto con la dicitura “Questo è il tema di un fascista”. Da quel giorno, per mesi, Sergio Ramelli era stato letteralmente perseguitato: minacciato, vessato, picchiato. Era stato costretto a cancellare con la vernice alcune scritte fasciste sui muri della scuola, e proprio in quell’occasione era stato fotografato. Quando infine una mattina suo padre lo aveva accompagnato all’ITIS per firmare in Presidenza il ritiro dalla scuola, erano stati picchiati entrambi.

In tutto questo, Sergio Ramelli era entrato nel Fronte della Gioventù, che contrariamente a Lotta Continua o ad altre organizzazioni di sinistra o di destra extraparlamentari era la sezione giovanile di un partito, l’MSI, che sedeva in Parlamento.

Ma a differenza di altri suoi coetanei Sergio Ramelli non aveva partecipato ad alcuna azione violenta, anche se dopo la sua uccisione ci fu chi cercò di giustificarla definendolo un “picchiatore fascista”. La sua morte è dunque emblematica di un periodo storico in cui un’intera generazione si trovò a replicare per così dire in sedicesimo quella guerra civile italiana che aveva conosciuto una prima fase tra il 1919 e il 1921, ovvero nel biennio rosso e con l’affermasi del fascismo, una seconda fase nel biennio 1943-1945, con la Resistenza e la Repubblica Sociale Italiana, e una terza in quegli anni Settanta poi passati alla storia come “di piombo”.

Fermo restando naturalmente che Walter a un certo punto aveva scelto la lotta armata ed entrando nelle Brigate Rosse aveva ucciso ed era stato ucciso, mentre Sergio era stato ucciso come detto per aver scritto quel tema che aveva a che vedere con quanto avevano fatto le Brigate Rosse.

Walter Alasia e Sergio Ramelli sono diventati dopo la loro morte dei simboli: l’uno e l’altro, per ragioni molto diverse, divisivi.

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Da parte mia, ho scelto di raccontare il ragazzo che era Walter prima di uccidere, di venire ucciso e diventare un simbolo. E con questo libro ho scelto di raccontare il ragazzo che era Sergio prima che venisse ucciso e a sua volta diventasse un simbolo.

Walter l’ho conosciuto. Sergio no. In tutti e due i casi, ho cercato di farlo con tutta l’onestà di cui sono capace. Senza indossare gli occhiali dell’ideologia, ma provando a restituire le persone che erano.

Oggi che come cinquanta, ottanta o cento anni fa l’Italia pare di nuovo spaccata in due, oggi che come allora l’avversario è un nemico, e che in quanto tale viene spogliato della sua umanità, ho ritenuto di raccontare la storia di un ragazzo di diciotto anni che aveva idee diverse rispetto a quelle della maggior parte dei suoi coetanei e che per questo è stato ucciso.

Non sono pochi coloro i quali non vorrebbero più sentirne parlare, e che pensano ancora oggi che i morti non sono tutti uguali, e che certi vadano ricordati, mentre altri sia opportuno rimuoverli. Ma il dolore provato da chi li ha amati quando erano in vita non è diverso, anche se c’è chi ritiene che non abbia diritto di cittadinanza. Ecco perché ho scritto Uccidere un fascista, la storia di Sergio Ramelli, una vita spezzata dall’odio.

Giuseppe Culicchia

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Redazione Libri Mondadori