Malattie rare: il genere può fare la differenza?

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Intervista alla Dott.ssa Nicoletta Orthmann, Direttrice medico-scientifica della Fondazione Onda Osservatorio nazionale sulla salute della donna e di genere ETS

Le malattie rare colpiscono circa 300 milioni di persone nel mondo, di cui 30 milioni in Europa e oltre 2 milioni in Italia. Di queste, il 70% insorge in età pediatrica e il 20% dei casi riguarda minori di 18 anni. In Italia, ogni anno sono diagnosticati circa 19.000 nuovi casi, ma il percorso diagnostico è lungo e tortuoso: in media servono oltre 4 anni, ma si può arrivare fino a 7 anni o più. Solo il 5% delle malattie rare poi ha una terapia disponibile.

Sono alcuni tra i dati riportati in Woman in Rare”, un progetto promosso da Alexion insieme a UNIAMO, con la partecipazione di Fondazione Onda ETS, EngageMinds HUB e ALTEMS, che racconta proprio attraverso le statistiche come le malattie rare colpiscano soprattutto le donne, non solo come pazienti ma anche come caregiver, ruolo che nel 90% dei casi è svolto appunto dalle donne.

QUANDO IL GENERE COMPLICA LA DIAGNOSI NELLE MALATTIE RARE

Negli ultimi decenni, le disuguaglianze di genere sono sempre più evidenti e riconosciute in Europa. Dalla diagnosi ai trattamenti, fino al peso delle responsabilità di cura, le donne affrontano sfide quotidiane che compromettono salute e qualità della vita. Le malattie rare amplificano queste disuguaglianze. La combinazione tra rarità, complessità e progressione, spesso degenerativa della patologia, rende l’accesso alle cure ancora più difficile per le donne.

“Negli anni, la sensibilità e l'attenzione verso una medicina personalizzata che tenga conto delle differenze di sesso e genere sono aumentate, contaminando via via tutti gli ambiti specialistici come quello delle malattie rare ed evidenziando gap da colmare. Ad esempio, ci sono alcune evidenze in letteratura per cui il sesso femminile rappresenta un fattore di rischio per il ritardo diagnostico. Dai dati raccolti dalle indagini condotte nel progetto Women in rare, emerge lo stigma percepito dalle donne con malattie rare nella relazione con i medici, i quali tendono a ricondurre una sintomatologia particolare, non ordinaria, a un disturbo mentale, spesso associato al genere, come ansia e depressione. Alcune riportano la sensazione di una minor credibilità e affidabilità dei propri racconti”, ci dice Orthmann. “Si tratta di un pregiudizio che ritroviamo anche in altri ambiti, come nel dolore cronico, un tema su cui abbiamo lavorato molto”.

Il pregiudizio di genere, infatti, emerge sin dalle prime fasi del percorso diagnostico. Le donne tendono a ricevere una diagnosi più tardi rispetto agli uomini, rinviando, di conseguenza, anche i trattamenti e aggravando le condizioni di salute. Secondo un rapporto di Alliance Maladies Rares, in Francia le donne sono indirizzate agli specialisti e agli ospedali più tardi rispetto agli uomini. Inoltre, il rapporto evidenzia che, mentre per gli uomini la gestione dei sintomi inizia spesso prima della conferma diagnostica, per le donne avviene solo dopo.

“Un approccio innovativo come quello della medicina di genere – prosegue la dottoressa – che considera il mosaico di fattori biologici, socio-economici e culturali, può migliorare i tempi di diagnosi e la qualità delle cure. L’attenzione alla salute della donna deve considerarne le specificità attraverso un approccio multidisciplinare. Le ricerche condotte nell’ambito del nostro progetto hanno evidenziato come le donne con malattie rare siano portatrici di bisogni insoddisfatti che non sono rilevati al momento della presa in carico e nella costruzione del percorso che segue la diagnosi. Anche nei centri di eccellenza, l’equipe interdisciplinare non prevede, come figura in affiancamento, un ginecologo formato su queste malattie e sulla loro declinazione rispetto alle peculiarità e alle problematiche che connotano i diversi cicli vitali femminili (contraccezione, gravidanza, procreazione medicalmente assistita, puerperio/allattamento, pre-menopausa e menopausa)”. 

IL DIVARIO DI GENERE NELLA PERCEZIONE E GESTIONE DELLA SALUTE

Il questionario di “Woman in Rare” ha coinvolto complessivamente 206 pazienti (di cui solo uno di sesso maschile) e 160 caregiver (9 uomini e una persona che ha preferito non dichiarare il proprio genere).

È emerso che, nella relazione con il proprio medico, la percezione dello stigma del clinico è avvertito dal 23% delle pazienti. Le donne intervistate ritengono che il genere di appartenenza influenzi la credibilità dei loro racconti e che, quando accompagnate da un uomo, il medico si ponga in maniera differente. Il 25% pensa che essere donna abbia influenzato la diagnosi iniziale, il 22% ritiene che abbia causato un ritardo nella diagnosi e, infine, il 18% pensa che il genere abbia causato diagnosi errate.

“Quindi – chiarisce Orthmann – quando parliamo di approccio di genere rispetto alla donna, parliamo proprio di attenzione alle specificità della donna, anche quelle riproduttive, senza dimenticare che la donna vive di più, quindi ha un maggior carico di comorbidità”.

IL PESO DELL’ASSISTENZA

La European Care Strategy, presentata dalla Commissione Europea nel 2022, riconosce che l’assistenza è fortemente condizionata da un pregiudizio di genere. Le donne, che tradizionalmente assumono il ruolo di caregiver, sono esposte a maggiori rischi socio-economici e di benessere, portando avanti stereotipi che le vedono responsabili dell’accudimento familiare. Le donne continuano a sopportare il peso maggiore delle responsabilità di cura e sono il 90% della forza lavoro, con 7,7 milioni di donne non ha un impiego perché caregiver.

Secondo il Juggling Care Survey, il 30% delle caregiver di persone con malattie rare dedica più di sei ore al giorno all’assistenza. Il 64% sono madri e il 25% mogli di chi è affetto da una patologia rara. È un carico assistenziale che ha un impatto diretto sull’occupazione femminile e aumenta il rischio di disoccupazione, esclusione sociale e vulnerabilità economica.

“Il ruolo delle donne come caregiver aggiunge un ulteriore carico, limitando anche il tempo per la propria salute e la prevenzione”, prosegue Orthmann. “Il caregiving è pertanto da annoverare tra i determinanti di salute; un approccio di genere abbraccia anche questo aspetto. È importante sensibilizzare le donne sull’importanza di prendersi cura di sé per essere di supporto agli altri. Il ruolo del caregiving nelle malattie rare è peculiare, perché nella maggioranza dei casi riguarda genitori giovani nel pieno della fase progettuale della vita. Dalla ricerca è emerso che le donne caregiver mostrano un’inclinazione a identificarsi nel proprio ruolo. Le aspettative della società giocano senza dubbio un ruolo in questo senso e sono molto sentite da parte delle donne intervistate”.

UNA RICERCA AL MASCHILE

Tra i bisogni emersi dall’indagine c’è il potenziamento della ricerca scientifica sulle malattie rare, richiesto sia dalle pazienti sia dalle caregiver, per ottenere diagnosi più rapide e una maggiore preparazione dei medici. L’incentivo alla ricerca è già nell’agenda UE e nazionale, attraverso finanziamenti, incentivi fiscali e un quadro regolatorio favorevole. Il PNRR prevede poi oltre 524 milioni di euro per innovazione e ricerca sanitaria, con due bandi già pubblicati e 24 progetti finanziati per le malattie rare. La Legge 175/2021 introduce un credito d’imposta del 65% per chi fa ricerca su farmaci orfani, in attesa di regolamento attuativo.

Secondo Orthman è inoltre fondamentale avviare ricerche sulle differenze di genere nelle malattie rare: “Includere le donne nei trial garantirebbe terapie più appropriate. Nonostante una crescente consapevolezza servono maggiori sforzi, anzitutto culturali, in cui è necessario coinvolgere aziende farmaceutiche, ricercatori e pazienti. “Women in Rare” ha approfondito questi aspetti, analizzando le esperienze di pazienti e caregiver e ponendo l'accento sulla centralità della donna nella medicina di genere, non solo come paziente, ma come parte attiva del processo di cura e ricerca”.

Recapiti
info@osservatoriomalattierare.it (Ivana Barberini)