Myanmar, il paese della paura - Azione Cattolica Italiana

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«Nel mio paese la paura fa più vittime della miseria: la paura è la prima fonte della nostra sofferenza». Questo il saluto di un amico monaco buddista durante la mia ultima visita in Myanmar, il paese della paura alla fine del 2024. I monaci buddisti non amano le dichiarazioni sensazionali, amano combattere la sofferenza. 

La paura dei soldi 

Mi accorsi subito che il monaco aveva ragione parlando con l’autista del taxi (in Myanmar quasi tutti sanno anche l’inglese). Infatti, la prima informazione che chiedo quando sbarco in un paese nei guai, con il sospetto che si tratti di uno stato fallito, è qual è la differenza tra il cambio ufficiale della moneta locale e il cambio in nero, quello che si ottiene dai cambiavalute per strada.

Per esperienza, questo è un indicatore di quanto grave sia la situazioneIl cambio dei soldi è infatti un indicatore inequivocabile del livello di fiducia della gente verso lo Stato, l’autorità che stampa le banconote. Il fatto che nessuno voglia più la moneta locale e preferisca comprare una valuta straniera di un paese vicino o di uno lontano a un prezzo molto maggiorato, a volte fino a sette volte il suo valore ufficiale, significa che lo Stato è fallito, a cominciare dalla fiducia scomparsa dei suoi cittadini. 

Questa era anche la situazione del Myanmar il 27 marzo scorso, il giorno prima del devastante terremoto del 28 marzo che ha aggiunto al disastro preesistente del paese una nuova catastrofe fisica fatta di milioni di case distrutte, di macerie, di morte dei poveri e degli innocenti 

Myanmar, il paese della paura e delle etnie diverse: la guerra civile continua a fare più vittime del terremoto

Per almeno sei decenni dopo l’indipendenza dal Regno Unito nel 1948 e dopo il colpo di stato militare nel 1962, il popolo birmano – e ancor più le minoranze etniche che rappresentano circa il 35% della popolazione – hanno lottato contro la dittatura, che non riconosce loro gli stessi diritti della maggioranza di etnia Bamar. La guerra civile, la cattiva amministrazione, la grande disuguaglianza e la povertà diffusa sono divenute la normalità. 

Il Myanmar, noto anche come Birmania, ha sofferto per decenni sotto un regime militare repressivo, con una povertà diffusa e una guerra civile con i diversi gruppi etnici. Dopo le elezioni democratiche vinte dalla leader e Premio Nobel per la pace, Aung San Suu Kyi, nel 2011, la transizione dal precedente governo militare alimentò le speranze di riforme democratiche. Ma i militari hanno mantenuto il controllo su gran parte del governo, soprattutto sulle risorse naturali del paese e hanno avviato una campagna di pulizia etnica contro i Rohingya. L’esercito fece un nuovo colpo di stato nel febbraio 2021 e ha poi represso le proteste. L’opposizione ha formato un governo di unità nazionale ombra e una forza combattente, continuando la guerra civile di resistenza, mentre la crisi umanitaria continua a peggiorare estendendosi oltre i confini del Myanmar.

La paura del futuro: una situazione economica disperata

Il Myanmar è da tempo più povero della maggior parte dei suoi vicini a causa delle politiche isolazioniste favorite dalla giunta militare negli anni ‘60 e ‘70, della cattiva gestione economica successiva e del conflitto in corso, tra le altre questioni.

Gran parte della popolazione dipende dall’agricoltura per sopravvivere. La povertà è rimasta elevata nelle aree rurali, dove vive la maggior parte delle persone. Fa impressione visitare i mercati locali dove decine di “venditori” sono seduti per terra su una stuoia con decine di piccole manciate di arachidi da vendere per un prezzo equivalente a due o tre centesimi di euro. È l’unica merce che hanno da vendere. 

I notevoli giacimenti minerari del paese, in particolare di giada e rubini, e le riserve di gas naturale hanno attirato l’attenzione internazionale. Ma alcuni paesi, tra cui l’Europa e gli Stati Uniti, hanno imposto sanzioni sulle esportazioni di molti tipi di gemme dal Myanmar, perché gemme, gas naturale e altre risorse sono spesso controllate direttamente da aziende dominate dai militari o da aziende vicine alle forze armate.

Le riforme

Le riforme avviate nel 2011, tra cui l’apertura al commercio e agli investimenti, hanno portato ad alcuni modesti guadagni economici e a un’ondata di investimenti esteri. Entro il 2019, il prodotto interno lordo (Pil) pro capite ha raggiunto circa $ 1.400, quasi il doppio di quanto fosse nel 2008. Il tasso di povertà del paese diminuì drasticamente, scendendo dal 48 percento nel 2005 al 25 percento nel 2017. I donatori, come l’Unione Europea, il Giappone e gli Stati Uniti, aumentarono drasticamente i loro aiuti al Myanmar.

Molte di queste tendenze sono ora invertite. La crisi economica indotta dalla pandemia, così come i disordini politici e la violenza diffusi sulla scia del colpo di stato, hanno portato il Programma di sviluppo delle Nazioni Unite ad avvertire che il Myanmar scivolerà in un livello di privazione che non vedeva da decenni. Si prevede che il tasso di povertà raddoppierà nel 2022 rispetto al livello pre-pandemia. È anche probabile che il Pil del Myanmar vada significativamente peggio rispetto ai suoi vicini, con una contrazione del 18 percento a partire dal 2021.

Anche prima del colpo di stato, molti investitori stranieri si erano ritirati dal Myanmar. Molte imprese estere se ne sono andate a causa di notevoli limitazioni, disordini civili e sanzioni straniere. Molte aziende cinesi, così come alcune aziende giapponesi, sono rimaste. Spesso è difficile accedere al denaro contante e il sistema finanziario è prossimo al caos. Anche l’industria del turismo, una fonte vitale di valuta forte, è crollata.

La paura della morte: il sisma ha sbriciolato le poche speranze della gente

Il forte terremoto del 28 marzo ha colpito duramente la regione di Mandalay, la seconda città del paese, dopo la ex-capitale Yangon. Dato che la popolazione totale della regione supera un milione e mezzo di persone, gli esperti stimano che i morti potrebbero essere più di diecimila, con centinaia di migliaia di feriti. Il terremoto ha distrutto l’80 percento degli edifici, comprese scuole, ospedali, ponti, strade, sistemi idrici e di distribuzione dell’energia, rendendo così molto difficili le comunicazioni e i soccorsi.

Dall’estero molti si chiedono se il soccorso umanitario, richiesto dal regime militare e già cominciato darà anche ossigeno al governo fallito. Per me è una domanda sterile. Salvare vite umane dovrebbe essere l’assoluta priorità, prima di ogni considerazione sugli impatti politici. Semmai si deve solo fare attenzione a raggiungere i più poveri e non finanziare organi del governo dei dittatori. L’aiuto dall’estero può far rinascere la speranza nel cuore delle vittime. 

In Italia, la Caritas, la Croce Rossa e Italia-Birmania Insieme hanno lanciato raccolte di fondi per aiutare le vittime del terremoto in Myanmar. 

Recapiti
Sandro Calvani