La resilienza, secondo l’American Psychological Association, è il processo di adattamento positivo alle esperienze di vita difficili. Originariamente mutuato dalla fisica dei materiali, il concetto ha subito un’evoluzione significativa nell’ambito psicologico. Ma cosa significa veramente essere resilienti e che benefici offre alla nostra vita?
La resilienza come adattamento e strategia di vita
La resilienza è una forma evoluta di adattamento, che ci permette di rispondere con flessibilità e creatività alle sfide della vita. Come un organismo vivente che si trasforma per sopravvivere in ambienti mutevoli, la resilienza rappresenta la nostra capacità di ridisegnare continuamente i nostri confini ed equilibri interiori, per esempio adeguandoci, ma non semplicemente subendo, e per tanto elaborando attivamente le esperienze, integrando anche i fallimenti nel naturale processo evolutivo, di crescita e miglioramento.
Nell’ottica resiliente, ogni difficoltà diventa un punto di snodo per una nuova configurazione di noi stessi. L’adattamento resiliente è un processo evolutivo che coinvolge simultaneamente la nostra dimensione emotiva, cognitiva e comportamentale, dunque permettendoci di riorientare le nostre energie, apprendere da ogni esperienza e costruire strategie sempre più articolate per affrontare l’imprevedibilità dell’esistenza e le mille sorprese della vita.
La resilienza è un movimento interiore fluido, simile a quello di un fiume che incontra ostacoli e li supera, li aggira o addirittura li trasforma, con la perseverante pazienza dell’acqua. Dimostrando così che la vera forza non sta nella rigidità, ma nella capacità di essere flessibili e aperti al cambiamento.
Quanto è importante l’adattamento nell’evoluzione?
L’evoluzione si basa sull’adattamento, che richiede un continuo riequilibrio tra le sue spinte naturali di stabilità e cambiamento. Da un punto di vista biologico, l’adattamento determina le capacità di sopravvivenza delle specie, in un ambiente in continuo cambiamento, e assicura quella variabilità genetica necessaria alla vita, attraverso mutazioni e selezione naturale.
Da un punto di vista psicologico e umano, l’adattamento ci permette di rispondere efficacemente a sfide e cambiamenti, sviluppando flessibilità emotiva, cognitiva e comportamentale, e di evolvere di fronte a importanti trasformazioni culturali e tecnologiche, favorendo l’innovazione, la creatività e l’apprendimento collettivo.
Perché oggi abbiamo così bisogno della resilienza?
Oggi abbiamo fortemente bisogno della resilienza, perché il nostro mondo sta cambiando molto velocemente, con importanti trasformazioni tecnologiche, sociali, naturali e geopolitiche. Nella nostra epoca, abbiamo bisogno di sviluppare una forte resilienza digitale, che ci permetta di affrontare le sfide della rivoluzione tecnologica, come i rischi del web, l’iperconnessione, la tecnoferenza, il phubbing o l’ansia per l’impatto dell’intelligenza artificiale sulle nostre vite.
La crescente digitalizzazione sta rivoluzionando anche il mondo del lavoro, che ci richiede di essere resilienti, aggiornando le nostre competenze tecniche, ma anche emotive e relazionali. La resilienza è fondamentale anche per prevenire l’isolamento sociale e contrastare la solitudine. La ricerca neuropsicopedagogica di Fondazione Patrizio Paoletti ha dimostrato come la resilienza contribuisca a un senso di pace e permetta una maggiore connessione con sé stessi e con gli altri, diventando un ponte di empatia e sensibilità, dove la cura e l’attenzione è rivolta sia verso sé stessi sia verso il mondo esterno, in una dimensione umana espansa.
Dopo un dolore, un ostacolo o una sfida, la resilienza ci fa tornare come prima?
Il termine “resilienza” è stato traslato dalla fisica dei materiali al campo psicologico. In fisica, la resilienza descrive la capacità di un materiale di assorbire urti o deformazioni, per poi tornare al suo stato originario. Nel contesto psicologico, però, il concetto di “ritorno come prima” è invece superato: dopo un ostacolo, gli esseri umani non tornano semplicemente allo stato precedente, ma attraversano un processo di “normalizzazione”, ossia un percorso psicologico attraverso il quale si ritrova un senso di equilibrio e stabilità, anche dopo aver vissuto un trauma, e che comprende l’integrazione delle esperienze nel vissuto e nella propria narrativa di vita.
Oggi si intende la resilienza come un processo dinamico e continuo, avvicinandosi al più nuovo costrutto di antifragilità. La resilienza non ci permette di tornare come eravamo prima di aver affrontato una sfida, ma di rispondere alle avversità cogliendovi le opportunità di crescita e conoscenza del proprio potenziale e di attraversare un profondo percorso di trasformazione e crescita, anche attraverso gli ostacoli, per uscirne rinnovati, rafforzati e migliori.
Che cos’è l’antifragilità?
Il concetto di antifragilità è stato introdotto dallo statistico e filosofo Nassim Nicholas Taleb nel 2012 e descrive la capacità, non solo di resistere allo stress e di adattarsi ai cambiamenti, ma di migliorare, evolversi e rafforzarsi proprio grazie alle sollecitazioni, difficoltà, volatilità ed incertezza.
Chi impara ad essere antifragile, oltre che resiliente, non solo supera gli imprevisti, ma ne trae un vantaggio. Il Professor Giuseppe Vercelli, psicologo e psicoterapeuta, docente di Psicologia dello Sport e della Prestazione Umana presso l’Università di Torino e Responsabile dell’Area Psicologica del CONI, spiega: “L’antifragile ama il cambiamento e l’instabilità perché sa che in tale condizione mutevole può trovare una spinta propulsiva verso una nuova destinazione, contemplando anche il fallimento e gli errori. L’errore diventa perciò informativo e desiderabile, in quanto dà spunti imprescindibili per evolvere e ottimizzare le nostre prestazioni”. L’antifragilità, quindi, valorizza l’apprendimento continuo anche attraverso l’errore, il fallimento e un rischio ponderato, perché usa anche le crisi per sperimentare nuovi modelli di azione, vita e operatività.
Quali sono le componenti della resilienza?
La resilienza comprende diverse componenti, fra cui:
- Flessibilità emotiva: capacità di gestione delle emozioni, consapevolezza emotiva, adattamento ai cambiamenti emotivi, regolazione efficace dello stress
- Flessibilità cognitiva: capacità di rileggere e rivalutare situazioni “negative”, adattabilità mentale, pensiero creativo nell’affrontare i problemi
- Pensiero costruttivo: interpretazione delle difficoltà come opportunità, approccio proattivo al problem-solving, ottimismo realistico
- Supporto sociale: costruzione e cura di relazioni significative, capacità di chiedere e ricevere aiuto, senso di appartenenza comunitaria
- Senso di autoefficacia: fiducia nelle proprie capacità, convinzione di poter influenzare gli eventi, attribuzione interna del controllo (locus of control interno), ottimismo costruttivo
- Senso di significato e scopo: capacità di attribuire significato alle esperienze, visione prospettica della vita, valori personali solidi, progettualità.
Quali sono i benefici della resilienza?
La resilienza è una componente preziosa nel viaggio complesso della vita, una sorta di bussola interiore che orienta le nostre capacità di superamento delle difficoltà. Quando sperimentiamo momenti complessi, la resilienza è il nostro alleato più importante, che ci permette di affrontare le avversità e addirittura trasformarle in opportunità di crescita personale. Non si tratta semplicemente di resistere agli ostacoli, ma di attraversare le sfide con consapevolezza, mantenendo un equilibrio interno che ci consente di apprendere, evolvere e rigenerarci continuamente.
La persona resiliente non è assolutamente immune al dolore o alla fatica. Piuttosto, possiede la straordinaria capacità di digerire e metabolizzare gli eventi negativi, distillandone significati profondi e risorse persino inaspettate. La resilienza è un vero e proprio antidoto al senso di impotenza, che può cogliere di fronte all’ostacolo. La resilienza ci offre la possibilità di guardare oltre le difficoltà, prefigurando un futuro nel quale queste non sono barriere insormontabili, ma tappe di un percorso di maturazione, crescita ed evoluzione.
L’autostima ci permette di sviluppare e rafforzare altre fondamentali risorse interiori, come:
- l’autostima
- il senso di autoefficacia
- la speranza
- la fiducia
- le capacità di recupero
- le capacità di pianificazione
Le ricerca scientifica sulla resilienza
La ricerca scientifica sulla resilienza ha fatto progressi significativi, esplorandola da diverse prospettive. Gli avanzamenti della ricerca scientifica stanno trasformando la comprensione della resilienza da un tratto innato a una capacità che può essere attivamente sviluppata attraverso interventi mirati.
Neurobiologia della resilienza
Gli studi scientifici hanno identificato i maggiori meccanismi neurobiologici che contribuiscono alla resilienza, tra cui la regolazione del sistema di risposta allo stress, i circuiti neurali coinvolti nella regolazione emotiva e i fattori genetici ed epigenetici che influenzano la risposta individuale alle avversità.
Psicologia positiva e resilienza
La Psicologia positiva approfondisce le risorse che promuovono l’adattamento positivo, ossia la reazione ottimale di fronte a una situazione avversa, identificando i fattori protettivi come l’ottimismo, l’autoregolazione emotiva, il supporto sociale e la capacità di trovare significato nelle esperienze difficili.
Resilienza nelle diverse fasi della vita
Gli studi hanno esaminato come la resilienza si sviluppa dall’infanzia alla vecchiaia, identificando periodi particolarmente sensibili per gli interventi, ma riconoscendo la resilienza come un processo dinamico che può essere coltivato in qualsiasi momento della vita.
Approcci interdisciplinari
La resilienza viene studiata attraverso prospettive integrate che combinano genetica, neuroscienze, psicologia, sociologia e medicina, riconoscendo la complessità dei fattori che contribuiscono alla capacità di recupero degli individui.
Resilienza organizzativa e comunitaria
La ricerca si è estesa oltre l’individuo per esaminare come gruppi, organizzazioni e comunità possono sviluppare resilienza collettiva di fronte a crisi, disastri o cambiamenti sistemici.
Interventi specifici basati sull’evidenza
Programmi specifici per potenziare la resilienza in diverse popolazioni, inclusi bambini a rischio, personale militare, operatori sanitari e persone con traumi o disagio psicologico sono stati sviluppati, con crescente evidenza della loro efficacia.
Misurazione della resilienza
La ricerca ha creato strumenti psicometrici sofisticati per valutare la resilienza, permettendo una comprensione più precisa delle sue componenti e facilitando la ricerca comparativa.
Storia della ricerca scientifica sulla resilienza
Anni Settanta: dalla fisica alla psicologia
Il termine resilienza è stato usato in ambito neurologico per la prima volta negli anni Settanta, dallo psicologo inglese Michael Rutter, tra i padri fondatori della psicologia infantile. Rutter prese in prestito il concetto dal mondo della fisica dei materiali che descrive come alcune sostanze, dette resilienti, hanno capacità innate di resistere maggiormente allo stress rispetto ad altre. Rutter applicò il concetto alla psiche infantile, constatando una differenza di risposta tra diversi individui a eventi traumatici.
Nel 1955, Emmy Werner condusse uno studio pioneristico durato più di trent’anni su più di 500 bambini nati in condizioni di alto rischio nell’isola di Kauai, nelle Hawaii. Osservò che circa un terzo dei bambini cresciuti in ambienti sfavorevoli (povertà, genitori con problemi di salute mentale, conflitti familiari) mostrava un adattamento positivo nonostante le avversità.
Werner fu tra i primi scienziati a identificare la resilienza come fenomeno osservabile e a definire i “fattori protettivi” che contribuiscono allo sviluppo resiliente, come relazioni di supporto con adulti non appartenenti alla famiglia, temperamento positivo e competenze sociali, sottolineando l’importanza dell’interazione con l’ambiente psicosociale di riferimento. In particolare Werner riconobbe l’importanza di una figura adulta di supporto, che offrisse ai bambini riconoscimento, apprezzamento e affetto.
Anni Ottanta: la qualità dell’adattamento
Norman Garmezy avviò il “Project Competence” all’Università del Minnesota, studiando bambini a rischio di psicopatologia. La sua ricerca ha identificato tre principali categorie di fattori protettivi:
- caratteristiche individuali (autonomia, autostima e orientamento sociale positivo)
- coesione familiare
- disponibilità di sistemi di supporto esterno.
Garmezy spostò il focus dalla vulnerabilità alla competenza, evidenziando come alcuni bambini riuscissero a prosperare nonostante le avversità.
Anni Novanta: l’importanza del contesto e delle figure di supporto
- Edith Grotberg ha approfondito le componenti protettive di supporto esterno, forza interiore e capacità sociali e interpersonali.
- Albert Osborn focalizza la sua ricerca sull’insieme di fattori, caratteriali e ambientali, che modulano la capacità resilienza, sottolineando l’importanza di genitori supportivi e positivi per lo sviluppo della resilienza nei bambini.
- Anita Hunter ha studiato negli adolescenti a rischio i due poli della resilienza ottimale e quella non ottimale, basata sull’isolamento sociale e sulla disconnessione emotiva.
Anni Duemila: dall’ambiente all’epigenetica
- Boris Cyrulnik ha sottolineato l’importanza dell’amore, dell’apprezzamento, dell’attaccamento sicuro e di punti di riferimento saldi nell’età adulto, nello sviluppo della resilienza
- Stefan Vanistendael ha analizzato l’importanza dell’umorismo, della spiritualità e della capacità di trovare un significato nella vita, costruendo un’esistenza positiva nonostante le difficoltà.
- Suniya Luthar ha ampliato il campo della resilienza studiando bambini anche in contesti privilegiati, scoprendovi il rischio di problemi come l’uso di sostanze e l’ansia a causa di pressioni al successo e isolamento emotivo dai genitori. Luthar ha enfatizzato il ruolo dell’adattemanto positivo e delle relazioni di sostegno, in particolare con i caregiver, come fattore fondamentale della resilienza in tutti i contesti socioeconomici.
- Rachel Yehuda ha studiato i correlati biologici della resilienza, concentrandosi in particolare sul disturbo post-traumatico da stress (PTSD). La sua ricerca ha identificato alterazioni nell’asse ipotalamo-ipofisi-surrene, inclusi livelli più bassi di cortisolo in soggetti con PTSD. Yehuda è stata pioniera nello studio di come i traumi possano influenzare l’epigenetica, suggerendo meccanismi per la trasmissione intergenerazionale degli effetti del trauma e, potenzialmente, della resilienza.
Duemiladieci: strategie e risorse
- George Bonanno ha studiato le risposte al lutto e ai traumi, identificando diverse strategie che favoriscono la resilienza, tra cui la flessibilità emotiva e cognitiva.
- Ann Masten ha sostenuto con il concetto di “resilienza ordinaria” che la capacità di recupero si basa su risorse e processi normativi di sviluppo umano come l’attaccamento, l’autoregolazione, l’agency e i sistemi di significato culturale.
- Martin Seligman sottolinea la chiave dell’ottimismo, delle risorse e della narrativa positiva interiore, per sviluppare resilienza.
- Dennis Charney ha studiato i fattori neurobiologici della resilienza, tra cui la regolazione del neuropeptide Y, la dopamina, la serotonina e il BDNF (fattore neurotrofico derivato dal cervello). Ha approfondito i fattori psicologici che promuovono la resilienza, tra cui ottimismo, flessibilità cognitiva, supporto sociale e scopo nella vita.
- Michael Ungar ha introdotto il concetto di “resilienza ecologica”, sostenendo che la resilienza dipende più dalle risorse disponibili nell’ambiente sociale, culturale e fisico che dal