Montalto di Castro (Viterbo) è uno dei luoghi ritenuti potenzialmente idonei a ospitare il deposito nazionale dei rifiuti radioattivi. Ma è anche il luogo dove, tra le rovine di un parco archeologico-naturalistico, viene allevata allo stato brado la razza Maremmana Presidio Slow Food
Un giorno, da qualche parte in Italia, sorgerà un sito dove saranno stoccati i rifiuti radioattivi che arrivano dagli impianti nucleari in dismissione (nel nostro Paese, nella seconda metà del secolo scorso, ne erano in funzione quattro) e che derivano dalle quotidiane attività di medicina nucleare, industria e ricerca. Al momento non è ancora stato stabilito quale luogo ospiterà il sito, noto come Deposito Nazionale. Alla fine del 2023, il ministero dell’Ambiente ha pubblicato un elenco di aree idonee a ospitare il deposito: in totale sono 51, sparse tra Basilicata, Puglia, Piemonte, Sardegna, Sicilia e Lazio.
Il caso di Montalto di Castro
Ben 21 delle 51 aree ritenute idonee ricadono in provincia di Viterbo. Di queste, quattro sono nel territorio comunale di Montalto di Castro, paese di ottomila abitanti a una manciata di chilometri dal mar Tirreno. Proprio a Montalto di Castro vive Paolo Mariotti, allevatore e referente dei produttori del Presidio Slow Food della razza Maremmana, una razza bovina autoctona e molto rustica, che viene allevata allo stato brado dai butteri, i pastori che, in sella ai cavalli, seguono e guidano le vacche. «L’azienda ha più di mezzo secolo di storia, l’ha fondata mio nonno – racconta Paolo –. Alleviamo duecento capi che vivono tutto l’anno all’aperto, senza stalle, tettoie o ricoveri. È l’animale geneticamente più vicino al bovino selvatico».
Montalto di Castro è noto soprattutto per il parco archeologico-naturalistico di Vulci, una delle più importanti metropoli dell’Etruria marittima prima che venisse sconfitta dall’esercito romano nel terzo secolo avanti Cristo. Proprio all’interno del parco, ancora oggi, vivono e pascolano gli animali di Mariotti: «Il parco è nato nel 2000, ma noi siamo lì dal 1961, quando mio nonno ha iniziato a prendere in affitto i terreni dalla Soprintendenza archeologica. Terreni che, siccome si trovano nell’area archeologica, non possono essere seminati: gli animali sfruttano le erbe spontanee che crescono tra le rovine, tra cui trifoglio, veccia selvatica, gramigna e loietto. La razza Maremmana fa parte di quell’ecosistema, è perfettamente adattata e noi le siamo affezionati».
Gli animali, assicura l’allevatore, allo stato brado se la cavano bene, dissetandosi nei fiumi e nei fossi che scorrono abbondanti nella zona e riparandosi nei boschi se necessario. Oltretutto, sottolinea Mariotti, «parliamo di un sistema di allevamento più rispettoso del benessere animale, che è anche quello che sempre più anche il mercato chiede».
Il timore dei rifiuti radioattivi
Il timore di veder costruire qui il Deposito Nazionale, in un ambiente oggi frequentato soltanto da butteri a cavallo, turisti e trekker, agita allevatori e residenti. Per opporsi al progetto, il Comitato locale ha di recente manifestato proprio sui terreni dove pascolano le Maremmane: «La nostra zona è agricola e turistica – sottolinea Mariotti –. Se il centro di stoccaggio venisse costruito qua pagheremo un prezzo altissimo anche dal punto vista produttivo. Oltre che per il Presidio Slow Food della razza Maremmana, la zona è rinomata anche per l’olio e gli asparagi. Sarebbe davvero un duro colpo».
Di certo, da qualche parte il sito di stoccaggio andrà costruito. «Ma fa riflettere il fatto che nessuno abbia parlato con chi vive qua e non abbia considerato il valore di un territorio incontaminato e caratterizzato da allevamenti estensivi di eccellenza, da difendere a ogni costo».
E poi, conclude Mariotti, «nel raggio di pochi chilometri abbiamo già un grande parco solare, una vecchia centrale nucleare costruita e mai entrata in funzione, una centrale a biogas e quella a carbone: la nostra zona ha già dato tanto sotto il profilo energetico e industriale: ha la sola colpa di essere poco antropizzata, per questo fa gola a tanti».
«La proposta di realizzare un deposito di scorie nucleari in questo territorio rappresenta un’ipoteca sul futuro delle comunità locali – sostiene Federico Varazi, vicepresidente di Slow Food Italia –. Si parla di benefici economici e occupazionali, ma la verità è che saranno vantaggi limitati a pochi, a fronte di un danno certo e permanente all’ambiente, al paesaggio e al tessuto produttivo locale.
Non possiamo tollerare che venga sacrificato altro suolo agricolo fertile, già minacciato da un modello di sviluppo che sostituisce l’agricoltura con impianti industriali, come le estese distese di pannelli fotovoltaici che stanno erodendo l’identità agricola di intere aree della Tuscia laziale. Pensare di imporre un deposito nucleare in un territorio che, con fatica e visione, ha scelto la strada dell’agroecologia e della sostenibilità – come dimostra la nascita e il lavoro dei cinque Biodistretti – significa calpestare la volontà delle comunità locali. Ancor più grave è che la selezione dei siti sia avvenuta senza alcun processo partecipativo, in totale assenza di trasparenza e con il solito metodo calato dall’alto, senza alcun riguardo verso le economie agricole di piccola scala che lavorano rispettando e tutelando la biodiversità. Un aspetto, questo, discriminante, che non riguarda soltanto Montalto di Castro e la provincia di Viterbo, ma anche le altre zone individuate come idonee a ospitare il deposito».
Per queste ragioni, Slow Food Italia e Slow Food Lazio sostengono la battaglia degli allevatori, dei produttori e dei Comitati locali.