Parlare di sostenibilità non è più una scelta strategica legata all’Earth Day o ad altri momenti simbolici. È un’aspettativa quotidiana. Il pubblico ascolta, valuta, giudica. E ogni comunicazione sul tema rischia di cadere in due errori opposti:
- Greenwashing: parole altisonanti, pochi fatti. Risultato? Sfiducia e reputazione compromessa.
- Greenhushing: silenzio per paura di sbagliare. Ma così si perdono storie preziose e occasioni di relazione.
Quando il silenzio diventa un problema
Il greenhushing nasce da due paure: quella di vedere smascherate le proprie carenze e quella di attirare critiche. Così, molte aziende scelgono di non dire nulla. Ma tacere, oggi, significa perdere voce in capitolo.
Un esempio è Diadora, storico marchio italiano di abbigliamento sportivo. Pur avendo intrapreso un percorso verso la sostenibilità, con iniziative come il reshoring della produzione in Italia e l’adesione a programmi come Better Cotton, l’azienda ha comunicato questi sforzi solo in tempi recenti, pubblicando il suo primo bilancio di sostenibilità nel 2021. Questo ritardo nella comunicazione ha limitato la percezione pubblica del suo impegno ambientale.
Il rischio di parlare troppo
Dall’altro lato, il greenwashing è ormai un classico errore da manuale, una parola d’uso comune per descrivere campagne ricche di belle parole ma povere di fatti. Claim vaghi come “eco-friendly” o “sostenibile al 100%” senza dati o certificazioni generano diffidenza e possono provocare un effetto boomerang.
Un caso esemplare è quello di Ferrarelle: nel 2011 l’azienda è stata sanzionata dall’Antitrust per una campagna pubblicitaria che definiva la propria acqua “a impatto zero”. In realtà, la compensazione delle emissioni era solo parziale (pari al 7%) e temporanea, una pratica giudicata ingannevole dall’Autorità garante della concorrenza e del mercato.
Strategie per una comunicazione equilibrata
Parlare meno non è la soluzione. Parlare meglio, sì. Ecco alcune leve concrete per costruire una comunicazione sostenibile credibile:
- Dati chiari, fonti certificate
Ogni affermazione va supportata. Certificazioni come ISO, EMAS, B Corp aiutano. - Storytelling autentico
Mostra le persone, i processi, i luoghi. - Dipendenti protagonisti
Piccoli contenuti interni—chi ricarica i pannelli solari, chi lavora dietro le scelte green—valorizzano il lato umano del brand. - Micro-azioni e challenge
Coinvolgi il pubblico con una gamification delle micro-azioni. Premia chi adotta comportamenti sostenibili con badge, contenuti condivisibili, sconti. - Un piano che dura tutto l’anno
Non serve una “campagna della sostenibilità”. Serve integrare questi contenuti nel piano editoriale, con formati vari: reel, podcast, dirette.
Strumenti per misurare l’impatto comunicativo
- KPI ambientali integrati nei dati digital
Engagement, traffico su pagine CSR, adesioni offline: misurare è il primo passo per migliorare. - Sentiment analysis
Ascolta cosa dice il pubblico. Capisci dove sei credibile, dove devi aggiustare il tiro. - Report integrato, visivo, accessibile
Non solo numeri. Anche infografiche e contenuti condivisibili, per rendere i risultati parte del racconto.
Conclusioni
Tra greenwashing e greenhushing esiste una terza via. Fatta di concretezza, trasparenza e continuità.
Il compito di un’agenzia non è solo “parlare bene di sostenibilità”, ma aiutare i brand a costruire un racconto vero, che sappia durare nel tempo.
Perché la sostenibilità, quando è reale, non ha bisogno di urla.
Ma neanche di silenzi.